La chiesa parrocchiale di S. Andrea di Monteverdi Marittimo conserva una delle poche testimonianze epigrafiche di epoca romana dedicata alla dea Bellona. Si tratta dell’ara marmorea che troviamo all’ingresso a destra, vicino al fonte battesimale. La presenza della vasca nella chiesa è documentata dal 1751 mentre la trascrizione dell’epigrafe risale a qualche decennio prima. L’ara è una presenza familiare che, complice la posizione appartata e l’assenza di qualsiasi elemento di valorizzazione, non rende giustizia all’importanza che questo reperto archeologico ha per la nostra storia e per gli storici.
Dieci anni fa avevo pubblicato un articolo sulla nostra ara, ma il contributo più recente è stato dato da Mauro Moggi con l’articolo L’iscrizione di Monteverdi Marittimo con dedica a Bellona in L’abbazia di s. Pietro in Palazzuolo e il Comune di Monteverdi, pubblicato nel 2000. Di seguito riporto un articolo di Giulio Ciampoltrini del 1995, sfuggito a molti anche per il deviante riferimento a Populonia del titolo. (Alessandro Colletti)
‘Epigrafia di Populonia romana ’ di Giulio Ciampoltrini 1
L’ARA DI DONAX A MONTEVERDI MARITTIMO (CIL XI, 1737)
La pieve di Sant’Andrea a Monteverdi Marittimo, nell’Alta Val di Cornia, conserva una delle rare testimonianze epigrafiche del vasto territorio compreso fra Populonia e Volterra, probabilmente sopravvissuta proprio per il reimpiego, come fonte battesimale: l’ara eretta da Donax, liberto imperiale, me(n)sor, a Bellona (CIL XI, 1737).
Il blocco marmoreo, apparentemente integro, ove si escludano limitate scheggiature, soprattutto sulla faccia superiore e sui fianchi, presenta sui lati lunghi, simmetrica, in alto e in basso, una semplice sequenza di modanature — una larga fascia e una gola — che inquadra sul retro un campo liscio, e, sulla fronte, l’iscrizione, integra:
Bellonae sac(rum)
Donax Aug(usti) lib(ertus)
mesor d(ono) d(edit)
I fianchi sono lisci, trattati con un accurato lavoro di scalpello, ma non levigati 2.
La collocazione, in una località decisamente “periferica”, anche se di grandissimo rilievo per la presenza della celebre abbazia di Palazzuolo, è forse responsabile della singolare fortuna del monumento: Ciriaco d’Ancona ne ebbe probabilmente una trascrizione di seconda mano, durante il suo soggiorno volterrano; dato che il Codice Parmense è impreciso nella distribuzione in linee del testo; accurate, anche se non autoptiche, sono le trascrizioni della miscellanea senese di Pietro Tancredi, e del codice Pandulphinianus Ashburnhamensis 117, che, quindi, non derivano da Ciriaco 3. Ancora il Gori 4 e il Repetti 5 segnalano il monumento nella chiesa di Monteverdi, pur se il primo derivava il testo dalla tradizione manoscritta; solo il redattore del Corpus rinunciava a ricercare il monumento, nelle sperdute colline dell’Alta Maremma,e all’autopsia, dandolo evidentemente per disperso, dopo la fortuna in età umanistica, e — forse per il prestigio di Ciriaco — accoglieva il testo del Codice Parmense, a scapito dell’altro ramo della tradizione.
Il blocco iscritto sembra non aver subito alcuna modifica dal Quattrocento; è solo possibile che la maldestra scalpellatura con cui si tentò di cancellare la dedica “pagana” debba essere attribuita a secoli successivi — forse allo spirito controriformista, come farebbe, ad esempio, supporre la vicenda parallela di un monumento di Sinalunga 6 — dato che la tradizione umanistica non ha difficoltà a leggere la linea 1; ma è da notare, tuttavia, che la scalpellatura sembra piuttosto esprimere un’intenzione, che non proporsi la vera e propria abrasione delle lettere, ancora ricostruibili senza difficoltà. E certo — come confermerebbe anche la collocazione della faccia iscritta del monumento — che il reimpiego “ecclesiastico” fu disposto in modo da salvare l’iscrizione; e può essere, semmai, avanzata l’ipotesi che un riuso “profano”, forse per vasca da fontana, abbia preceduto quello liturgico, come fonte battesimale; ed ancora, che la rilavorazione come vasca abbia fatto sopravvivere solo una porzione del monumento eretto dal liberto imperiale.
I fianchi del blocco, come si è detto, sono accuratamente scalpellati, ma non levigati, e sprovvisti delle modanature che profilano i lati lunghi; essendo poco plausibile un intervento, medievale o moderno, per levigare i soli lati brevi dell’ara, non resta che ipotizzare che il blocco centrale, con l’iscrizione, fosse completato a destra e a sinistra da altri due blocchi, che potevano eventualmente esibire, sui lati brevi, figurazioni collegate al culto della divinità. In conclusione, l’ara posta da Donax poteva avere, in fronte, uno sviluppo forse doppio di quello del blocco superstite. L’assenza di tracce degli alloggiamenti delle grappe di fissaggio dei blocchi contigui è argomento contrario di limitata efficacia, per la rilavorazione del monumento, avviata a partire dalla faccia superiore, e per la lisciatura delle superfici di rilavorazione provocata dal lunghissimo reimpiego.
Le dimensioni del monumento — sulla cui collocazione “architettonica” nulla è ovviamente possibile dire — sono conferma dell’elevato livello sociale del liberto imperiale, il cui ruolo di mensor lo indica ovviamente impegnato nell’amministrazione del patrimonio imperiale, probabilmente fondiario 7. La divinità onorata, naturalmente, è la Bellona in cui era identificata la Grande Madre anatolica, Ma dei Cappadoci 8, e, pur se il culto gode di straordinaria fortuna a Roma, non è inverosimile che indizi l’origine orientale, anatolica, del dedicante. Un eccellente parallelo, per rimanere in ambito regionale, è offerto dall’ara lunense posta a Bellona da Stepbanus, servus di Vespasiano, certamente un “tecnico” dell’estrazione dei marmi, giunto a Luni dai bacini dell’Anatolia, con la ristrutturazione flavia delle cave apuane 9 . Nel monumento del territorio di Luni l’identificazione della divinità è assicurata dalle figurazioni sui fianchi: la capra, sacra ad Attis, ma anche impiegata nel criobolium rituale; il timpano delle feste di Cibele, usato anche negli aspetti misterici del culto 10. L’ara di Monteverdi potrebbe confermare il ruolo di particolare rilievo svolto dalla familia Caesaris nella capillare diffusione dei culti “orientali”.
La notevole oscillazione nella cronologia del monumento impedisce però di sfruttarne in pieno le indicazioni. La formula generica Aug(usti) lib(ertus) è in uso su un lunghissimo arco di tempo 11 ; l’accuratezza del ductus epigrafico, in puntuale rispondenza alle raffinate hederae distinguentes, non aiuta a proporre una cronologia più ristretta di quella compresa fra la fine del I e il II secolo. Anche la tipologia delle modanature, nella sua semplicità, non offre appigli cronologici.
Sono questi, comunque, gli anni che vedono giungere nella regione, con crescente fortuna, i culti orientali: a Luni le maestranze di origine anatolica da sempre impiegate nei bacini marmiferi portano al successo i culti di Iuppiter Sabazius, e, appunto, di Bellona 12 ; i veterani, quasi certamente delle coorti, pretorie e urbane, dislocate a Roma, importano dall’Urbe a Fiesole il culto di Iside, presto fortunato anche fra i ceti libertini di Firenze 13 ; ancora ai veterani si deve l’affermazione del culto di Mitra, attestato più dai monumenti figurati che da iscrizioni, e singolarmente diffuso lungo l’asse itinerario che da Roselle conduce ad Arezzo e a Chiusi 14 .
I decenni a cavallo fra la fine del I e gli inizi del II secolo vedono anche una precisa “riorganizzazione” dei crescenti beni imperiali nell’Etruria centrosettentrionale, in cui potrebbe essere stato impegnato anche il mensor Donax. A Luni, come si è accennato, la dedica di Stephanus, i tabularii del marmo lunense liberti di imperatori flavi, e, se si vuole, la particolare attenzione che Stazio rivolge al marmo lunense 15 , paiono indicare un rinnovato interesse per lo sfruttamento delle cave, ormai ampiamente — se non del tutto — di proprietà imperiale 16 . Nell’agro cosano, e nelle isole del Giglio e di Giannutri, le sterminate proprietà dei Domizi Enobarbi, confluite nel demanio imperiale verso la metà del I secolo d.C., sono radicalmente riorganizzate, anche con l’impianto di ville marittime, da Traiano, con un impegno che giunge anche agli anni di Adriano 17 . Ad una precisa politica traianea, volta a potenziare gli impianti produttivi costieri, funzionali anche all’appoggio alla navigazione, potrebbero essere collegati anche gli interessi elbani dello sfortunato prefetto del pretorio P. Acilius Attianus 18.
Molto meno è noto delle eventuali proprietà imperiali nell’entroterra: la presenza pressoché impalpabile di liberti (o discendenti di liberti) imperiali nelle città dell’interno — ove si escludano le dediche dai frequentati e celeberrimi santuari fontili del territorio di Chiusi 19 — parrebbe indicare le dimensioni modeste degli interessi imperiali, tanto più in confronto alla massiccia presenza di Iulii, Claudii, Flavii, a Luni; ma la dedica dalle colline del Chianti di Ti. Cl(audius) Glyptus 20 e, soprattutto, il monumento funerario del figlio (o liberto) di un procurator di Tiberio 21, da Cappiano, nel Valdarno Inferiore, potrebbero indicare che nelle vaste aree collinari ai margini degli agri centuriari urbani si stavano precocemente consolidando anche proprietà imperiali.
Se non fosse acquisito che i marmi — anche di notevole mole — hanno sempre goduto di larga, talora insospettabile, mobilità, e se il prestigio dell’abbazia di Monteverdi, per tutto il Medioevo, non avesse potuto, ancor di più, favorirne il recupero anche da luoghi remoti 22 , sarebbe immediato vedere nel monumento curato da Donax la testimonianza di beni imperiali nel territorio compreso fra Volterra e Populonia, formati — forse — anche con l’acquisizione di proprietà di famiglie senatorie o equestri: dalle “Maremme Senesi”, forse il territorio di Massa Marittima, proviene il monumento funerario, collocabile fra la fine del I e i primi decenni del II secolo, di Didia Quintina, moglie del volterrano L. Vetina Priscus, di rango senatorio; i dintorni di Pomarance hanno restituito l’iscrizione del monumento sepolcrale della volterrana famiglia dei Marii, di rango equestre 23.
Aggiungendo ipotesi ad ipotesi, come già proponeva Fiumi sulla sola scorta della documentazione altomedievale, sarebbe suggestivo vedere nelle grandi proprietà regie longobarde della Val di Cornia — il waldum domini regis 24 — non solo, o non tanto, il risultato della conquista della fine del VI secolo, ma anche la conservazione di un saltus imperiale formatosi fra I e II secolo.
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N.B. Abbreviazioni bibliografiche: C.I.L.- Corpus Inscriptionum Latinarum Berlino
2 Marmo bianco a grana fine; alt. cm 86, spess. cm 84, largh. cm 94. Alt. delle lettere cm 8 (l.1); 7,5 (l.2); 7 (l. 3).
3 CIL, lemma. Accurato è l’anonimo del Codice Pandulphinianus 117, della Laurenziana di Firenze, c. 91 r: Monte viridi repertum in agro volaterrano et ad eundem Donatum Acciaiolum missum BELLONAE SACR / DONAX AUG LIB / MESOR D D. Missum è ovviamente riferito al testo, e non al monumento, ovviamente mai spostatosi — se non altro per la mole — da Monteverdi, come indurrebbe a credere il lemma del Corpus. L’Acciaioli — che è evidentemente la fonte del manoscritto epigrafico — è detto eundem perché appena menzionato per l’iscrizione CIL XI, 1750. E’ infine da segnalare che Monteverdi è ovviamente posta in agro volaterrano per rispetto alla situazione politico-amministrativa quattro-cinquecentesca; al momento attuale è impossibile decidere se l’Alta Val di Cornia spettasse a Populonia o a Volterra; gli importanti scavi del Sasso Pisano potranno fornire preziose indicazioni in merito, ma, nel complesso, sembra più probabile che l’intero bacino del Cornia fosse amministrato da Populonia: si veda in proposito l’accuratissima disamina di FIUMI, 1968, p. 46 e s.
4 GORI, 1734, p. 47 e ss.
5 REPETTI, 1832; vol. 4, p. 553.
6 CIL XI, 2594, e Additamenta.
7 WEAVER, 1972, p. 115 e s.. anche per il livello “gerarchico” dei mensores; RE, XV.1, col. 957 e ss. (FABRICRIUS).
8 P. es. FERGUSON, 1974. p. 4 e ss.
9 CIL XI, 1315, per cui da ultimo TEDESCHI GRISANTI, 1983, p. 97, e fig. 7; esemplare, comunque, anche per la sua precocità, il caso di CIL IX, 3806, una dedica a Bellona posta dal vilicus della casa imperiale Tricunda, di origine isaurica (anno 11 d.C.: ILS, 3806).
10 P. es. FERGUSON, 1974, p. 95 e ss.
11 P. es. WEAVER, 1972, p. 37 e ss.
12 CIL XI, 1323; per questo, e il meccanismo di diffusione del culto, CIAMPOLTRINI, 1982, p. 130, nota 28.
13 CIL XI, 1543-1544; CIAMPOLTRINI, 1989, p. 321 e ss.
14 Per questa, CIL XI, 2596; i dubbi di PACK, 1988, p. 56 e s.. sembrano eccessivi. Per i monumenti mitriaci. cfr. VERMASEREN, 1956, p. 243 e ss., nn. 658 e ss.; si aggiunga TRACCHI, 1978, p. 73, tav. LVII, 3 (da Cavriglia).
15 CIL VI, 8484-8485; STAT., Silvae, 4, 2, 29, e 4, 4, 23.
16 Cfr anche CIAMPOLTRINI, 1982, p. 130
17 CIAMPOLTRINI, c.d.s.
18 Per l’Elba, CIL XI, 2607 e 7248; in generale, CIAMPOLTRINI, 1990, p. 425 e ss.
19 Cfr. p. es. PACK, 1988, p. 52 e ss. Si veda comunque la presenza di servi imperiali, in età tiberiana, a Latera, al margine fra gli agri di Sovana e di Visentium: CIL XI, 2916: Chryseros Ti. Caesaris Drusianus, verosimilmente vil(icus).
20 CIL XI, 7082; TRACCHI, 1978, p. 42, tav. XXXIV, 3; la dedica L(aribus) A(ugustis) — come ribadisce anche la figurazione sulla base (serpenti “protettori” del larario) — è un indizio, seppur fragile, a favore dell’appartenenza di Glyptus alla familia Caesaris (si veda p. es. anche CIL XI, 7093, da Perugia).
21 CIL XI, 1733; caratteri epigrafici, e formulario, imponendo per il monumento una datazione non molto oltre la metà del I secolo, dovrebbero indicare nel Rhodo[n], procurator, patrono (o padre) di Ti. Iulius Ianuarius, un liberto di Tiberio.
22 Le colonne di granito elbano attualmente reimpiegate nel Monumento ai Caduti potrebbero aver avuto una storia non dissimile da quella del monumento di Donax, attraverso l’abbazia altomedievale; in mancanza di dati concreti, non sembra opportuno avventurarsi in ipotesi sulla provenienza dei reimpieghi di Monteverdi.
23 Risp. CIL XI, 1773 (p. es. TORELLI, 1969, p. 299); BACCI, 1974, p. 79. fig. 4.
24 FIUMI, 1943, p. 43, nota 99.