3. Macchia Lupaia

MACCHIA LUPAIA [1]


Tutto ha un prezzo. Lo sapeva, fin da piccolo la mamma gli aveva insegnato che tutto costa. Spesso il costo è il sudore della fatica, la sete e la fame, le ferite del corpo e dello spirito. Nulla ti viene regalato, lo devi conquistare e meritare. Tornavano spesso alla mente queste parole che venivano ripetute in ogni occasione perché adatte alla consolazione o come premio.
Chinz aveva imparato presto che doveva guadagnarsi da mangiare. La mamma li aveva allattati per tre mesi e papà, dopo un lungo lavoro, portava a casa un po’ di carne che non bastava per tutti: quattro figli erano tanti anche per mamma lupa. Non che mancasse il cibo nel loro territorio, anzi era ricco di ogni tipo di animali: cervi, daini caprioli, cinghiali, istrici, tassi, lepri, scoiattoli e fagiani, insomma di che variare frequentemente dieta, senza farsi troppi nemici.

Semmai mancava l’acqua, ma solo d’estate e non sempre, e quando tutti avevano sete per loro era più facile cacciare vicino alle poche pozze. Erano i signori incontrastati della macchia. C’era stato un tempo in cui avevano dovuto inchinarsi alla forza e alla grandezza degli orsi, ma da anni non se ne erano più incontrati e le nuove generazioni non conoscevano l’odore delle loro tracce. L’ultimo si aggirava ai margini del loro regno, a sud ovest, vicino al corso d’acqua che gli umani chiamano ancora Rivo Orsajo o Corsojo. Già, gli umani, quelli che, pur riconoscendo a loro la proprietà del territorio, che chiamavano rispettosamente Macchia Lupaia, lentamente avevano occupato i terreni migliori e deviato le acque.
All’inizio sembravano dei buoni vicini, avevano portato grasse pecore e teneri agnelli e i lupi prelevavano il giusto tributo, come usano gli antichi proprietari delle terre, ma presto gli umani si sottrassero al pagamento della tassa organizzando battute, preparando trappole e lacci, seminando veleni.

Si arrivò alla guerra e forse la sorte dei lupi sarebbe stata migliore se non ci fossero stati quei traditori dei cani che si misero al servizio degli umani per combattere il loro stesso sangue. Gli altri animali si adattarono alla nuova situazione e ottennero dagli umani la possibilità di vivere accettando che alcuni di loro si sacrificassero per sfamare i crescenti appetiti umani.
Non che tutti gli umani fossero dei nemici, si raccontava di un lupo scontroso che aveva fatto amicizia con un uomo di nome Francesco che sapeva parlare la lingua dei lupi, di un altro lupo che, spinto dalle esigenze di una famiglia numerosa, aveva ucciso un bue il cui proprietario, Eustorgio, gli chiese di prenderne il posto sotto il giogo del carro e la strana collaborazione durò a lungo. Dicono fossero santi. Gli uomini.

Astuti, erano furbi gli umani, ma anche avidi. La guerra aveva portato morte tra le pecore e tra i lupi, era tutto nelle regole, finché ogni branco di umani decise di dare un premio a chi uccideva un lupo e un prezzo alla sua pelle.
Lo strano era che uccidevano ma non mangiavano carne di lupo.
Nel 1325 i banditori girarono le campagne annunciando :”chiunque di Monte Verdi o della sua corte catturi qualche lupo adulto, e il lupo o la sua pelle presenti al camerario del Comune con la testa del lupo, abbia e debba avere dal camerario del Comune soldi 5 di denari, per un lupo senza pelle così catturato ucciso e presentato e per ogni lupacchiotto presentato al camerario soldi 2 di denari.
Cento anni più tardi anche Canneto prezzò la vita dei lupi:” 20 soldi per un lupo o lupa uccisi, 10 soldi per ogni lupo vecchio, 5 soldi per un lupo piccolo.
Ancora cento e poco più anni e Sassetta fissò nuove quotazioni: “Per stirpare, et annihilare i Lupi destruttori delli Armenti, si ordina a ciascuno che ammazzerà Lupi in la Corte della Sassetta Lire tre e soldi dieci per qualunque delli Grandi; e delli Piccoli soldi dieci per qualunque. Da trarsi detto Premio per rata di quelli che haveranno Bestiami in la detta Corte della Sassetta; da pagarsi in mani del Camarlingo, quale sia tenuto infra un Mese risquoterli, e pagarli.”

Monterotondo non volle essere da meno:” Et quella persona che pigliarà, o occiderà alcuno lupo, o lupa nela corte, o iurisditione di Monteritondo voliamo che habbi, et haver debba dal Camarlengo del Comun nostro libre quattro di denari per ciaschun lupo, o lupa grossa, e soldi dieci per ciascun lupattone, non possendo pagare detti denari se prima oculata fide detti lupi, o lupe presi, e morti, e similmente detti lupiccioni, e detto Camarlengo contra farà ale cose predette caggi in pena di libre cinque di denari per ogni volta.” Campiglia, alla metà del ‘500 pagava “lire sette per ogni lupo grosso et lire dua per ogni lupotto”, suddividendo le spese tra tutti gli allevatori della corte.

Ogni cento anni il costo della vita di un lupo adulto aumentava di quattro volte mentre quello di un lupacchiotto raddoppiava, secondo i calcoli degli umani, visto che ogni libbra corrispondeva a 20 soldi e ogni soldo a 12 denari. I saggi lupi anziani, quelli che i cannetani – oh avessero saputo il valore dell’esperienza – avevano valutato solo la metà di un adulto, dicevano semplicemente che più le taglie degli umani aumentavano meno lupi restavano. Era lo sterminio. Avevano persino incaricato un cacciatore specializzato, detto luparius, e talvolta nominavano un ergastolano o un esiliato che in cambio della pelle dei lupi si salvava la sua.

Queste storie le aveva ascoltate attentamente dagli anziani e Chinz aveva pensato che da grande le avrebbe raccontate ai suoi cuccioli. Ma così non era stato, era rimasto l’unico lupo di Macchia Lupaia. Da tempo aveva smesso di cacciare pecore e agnelli, di farsi vedere dagli umani, si faceva sentire solo nella stagione degli amori ululando per chiamare la lupa che volesse dividere con lui quel piccolo regno e, dopo stagioni passate ad ascoltare lunghi silenzi, aveva capito che nessuna femmina avrebbe risposto al suo richiamo: la voce che Macchia Lupaia era perduta si era sparsa in ogni branco. Gli umani avevano quasi vinto. Era inutile dar colpa ai cani, traditori, che avevano scelto di vendere la loro libertà in cambio di un lavoro e di una ciotola di cibo rancido, forse avevano fatto anche bene ad allearsi col più forte, a quel punto chi poteva giudicare, non certo lui che aveva sempre respirato aria e libertà, le uniche cose che gli sembravano pulite.

Le famiglie che abitavano i dintorni erano state sterminate o se ne erano già andate: i vicini del Macchione dei Lupi di Suvereto, quelle dei torrenti Lupicaia che si buttano uno nella Sterza e l’altro nella Cecina, di Val di Lupa di Castellina, dei Poggi della Lupa di Bibbona e di Casale, la dinastia del Poggio al Lupo di Piombino, di Castagneto, di Massa Marittima, quella de La Lupa di Cecina, quelle del Piè di Lupo e Piè di Lupino di Rosignano. Ora toccava a lui, si trasferiva sui monti di Ripomarancia.
Lasciava ai cinghiali – così il cinghiale divenne il Re della macchia – e agli altri animali il suo regno incontaminato e il compito di vigilare contro l’invadenza degli uomini e delle loro attività. Se ne andava dopo aver tanto resistito: il nuovo secolo, il XVII, lo avrebbe trovato sui pascoli più alti, lontano dagli umani.
Aveva deciso di arrendersi, non agli umani, alle loro armi, ai loro trucchi e alle loro avidità, no queste cose non potranno mai sconfiggere la natura, forse umiliarla non vincerla: Chinz il solitario si arrendeva al dolce richiamo della lupa che gli aveva cantato le gioie di un posto tranquillo per costruire una famiglia e un migliore futuro. Aveva ceduto solo all’amore, la sua ultima vittoria.

Alessandro Colletti, 1997-1998



[1] Macchia Lupaia è proprio di fronte all’agriturismo, è la meta classica delle nostre passeggiate, una macchia in alcuni punti impenetrabile, ricca di animali, fiori, piante e funghi. Questo racconto è stato pubblicato su due riviste locali.

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