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La causa del 1568:
il Comune di Monteverdi contro la Badia.

di Alessandro Colletti


Il 15 aprile 1568 Lelio Torelli presentò il rapporto, commissionato dal Magistrato dei Signori Nove Conservatori della Giurisdizione e Dominio Fiorentino, riguardante la causa tra il Comune e gli Uomini di Monteverdi da una parte e la Badia e i Monaci di Vallombrosa dall’altra. A sostegno delle proprie ragioni il Comune produsse due documenti, il primo datato 1430 e il secondo 1469 nei quali veniva stabilita l’unione dei pascoli e delle pasture lamentando che successivamente al 1469 i monaci non avessero rispettato i patti. Richiese in aggiunta che l’estensione dei pascoli fosse da ritenersi uguale a quella dei monaci, presentando una “terminazione del 1296 tra li Comuni di Lustignano, Monteverdi e altri del Capitanato di Volterra e Vicariato di Valdicecina dove si comprende la Corte di Monteverdi, estendersi fino a’ confini di Castiglione Bernardi presso al botro di rio Gualdigiano e la strada della Cornia luogo detto all’rico del Viccone presso alla strada, e in luogo detto alle renelle, e alla via che va a Campiglia, dove si dice al botro del rio del pesco, dove mette nel fiume Cornia[1]”. Il Comune segnalò come la Rubrica 102 dei propri Statuti prevedesse la nomina dei paschieri e che ogni persona "tenuta a dar censo alla Badia" si desse in nota al Camarlingo del Comune. Ancora come nel 1492 lo stesso Comune riscuotesse direttamente il pascolo, nel 1496 nominasse una guardia per il pascolo, nel 1500 gli ufficiali del Comune assieme a don Baldassarre, Procuratore di Vallombrosa, facessero una “allogagione” e nel 1507 una “fida di porci”. Sempre con l’assenso di don Baldassarre deliberarono “una bandita, ovvero vendita tra li confini della via di Volterra da serra al pagliaio la via che va a Bolgari, e mette nella Sterza”.

Nel 1464 fu eletta una guardia comunale del pascolo e deciso come tenere le bestie nei pascoli, conservando quelli di Monteverdi e della Badia come comuni, ma ben distinti da quelli degli uomini di Canneto. Infine fu ricordato che nel 1253 il Comune, con i suoi possessi si sottopose a Volterra diventando così gli uomini di Monteverdi cittadini volterrani. Queste le principali argomentazioni dei monteverdini prese in considerazione dal rapporto Torelli.

A difesa i monaci presentarono il privilegio del 1176 di Papa Alessandro III che confermava loro il possesso della corte e del castello di Monteverdi e l’atto del 1326 con cui i monteverdini vennero privati dei loro beni causa il rifiuto di pagare i censi e di giurare fedeltà. Presentarono anche un documento del 1392 che riaffermava alla Badia il pascolo, la pastura, acqua, erba e ghiande della corte di Monteverdi, con esclusione della Bandita, ma ricordava anche il divieto per l’abbazia di mettere nei pascoli bestie altrui salvo rifondere completamente i danni arrecati.

Alla richiesta dell’unione dei pascoli i monaci replicarono presentando puntigliosamente documenti con i quali dimostrarono che l’unione dal 1430 al 1469 cessò del tutto nel 1511, che dei privati cittadini avevano avuto in affitto i pascoli nel 1517, che Agostino Falconcini affittuario dal 1521 al 1525 era debitore del pagamento di duecentocinquanta fiorini per ognuna delle cinque annate, don Germano affittuario dal 1526 al 1529 doveva trecento fiorini l’anno, anche don Marco de Bartoli doveva centosessanta fiorini per le annate 1530, 1531 e 1532. Insomma la Badia non riuscì per oltre un decennio a riscuotere i canoni dei pascoli di Monteverdi, nonostante l’importo fosse stato quasi dimezzato.

I pascoli furono affittati nel 1532 a Jacopo della Strada per centosessanta fiorini l’anno, contratto, evidentemente onorato, poi rinnovato per circa diciassette anni. Anche le note delle accuse e le condanne per danni, dal 1514 in poi, furono registrate separatamente dalle guardie della Badia e da quelle del Comune. I monaci integrarono la documentazione con l’atto del 1053 contenente la vendita all’abate di Monteverdi della corte di Gualda i cui confini comprendevano buona parte dei terreni posseduti dai monaci, ma anche e soprattutto di quelli del Comune. Infine completarono la documentazione con l’atto del 1258 nel quale Simone, abate del monastero di San Pietro di Monteverdi, ratificò e confermò al Comune di Volterra tutti i patti e convenzioni, cittadinanza, sottomissione e contratti fatti dal sindaco del Comune di Monteverdi consegnando il castello, corte, uomini, giurisdizione e signoria di detto luogo.

Come si arrivasse ad una causa tra Comune e Abbazia ci consente di ripercorre brevemente la storia delle due istituzioni.

Pochi decenni dopo il trasferimento della Badia sul colle di fronte a Monteverdi il monastero, nel 1252, subì da parte di banditaglie una aggressione che, assassinati tutti i monaci e lo stesso abate, rappresentò il punto di non ritorno del processo di decadenza del potere abbaziale da tempo sottoposto alle mire espansionistiche di poteri civili e religiosi più forti.

Il Comune di Monteverdi, orfano della protezione fin qui goduta dalla Abbazia che lo aveva portato prima a stringere alleanza con Massa e poi ad assoggettarsi a Volterra, si dotò di un proprio Statuto nel 1320[2], più tardo di quello di Volterra del 1199 ma anticipando altre comunità locali. La Badia, ridotta a pochi monaci, attuò da un lato una politica di cessioni di beni divenuti nei fatti incontrollabili, iniziativa in parte contrastata nel 1326 dall’abate Benedetto e nel 1339 da Papa Benedetto XII che stigmatizzò le vendite come "beni usurpati malamente", dall’altro affittò i pascoli di Monteverdi e Canneto al Comune di Volterra. I pisani in guerra con i fiorentini nel 1360 dopo aver occupato Suvereto, Vignale e Campetroso arrivarono fino a Monteverdi dove si accanirono contro la Badia (quella vecchia di Palazzuolo, poco a sud del castello di Monteverdi) e “da loro fino a fondamenta disfatta”. Nel 1366 l’abate don Andrea Cambi af­fittò in feudo perpetuo i pascoli, terre e giurisdizioni poste nel confine di Gualda, nel luogo detto Le Ville alla Comunità di Volterra per una pigna di sale del peso di 50 libbre l’anno e un moggio di gra­no, l’anno che se ne raccoglie sotto pena reciproca di mille fiorini d’oro. In questo documento veniva sottolineata la pratica dell’alter­nanza delle sementi al pascolo corrispondente alla rotazione biennale, tipico della conduzione alla maremmana.

Pochi anni dopo, il 20 giugno 1392, fu fatto un contratto fra “D. Andrea Cambi Abate del Monastero di S. Pietro di Monteverdi, monastero nel quale attualmente non vi sono più monaci che in detta Badia vi facciano residenza, e gli uomini di detto Castello nel quale fra le altre cose la Badia si riserva la pastura, l’acqua, l’erba, ghianda e foglia nel modo e forma consueta, fatto in Volterra nell’Audenzia del Palazzo dei Signori Priori come si legge nel Libro di notizie di Monteverdi a carte 2 Filza 7 n.2”. Questo documento è riportato dal Repetti[3], per un probabile refuso tipografico, sotto l’anno 1592 facendo cadere in errore numerosi storici che riportano il Cambi come ultimo abate, mentre lo fu l’abate Benedetto, citato nel documento dell’agosto del 1423 in cui monsignore Benozzo vescovo di Fiesole, ad istanza dell’abate e dei monaci di Vallombrosa ed in virtù della lettera di Papa Martino V, unì la Badia di Monteverdi al Monastero di Vallombrosa.

Nel 1405 Monteverdi fu occupata dalle truppe di Firenze e nel 1430 conquistata dal principe di Piombino Jacopo II, che allo scoppio della guerra tra Firenze e Siena, si schierò contro Firenze e, mentre Siena occupava Castiglion della Pescaia e Campiglia, si impadronì di Monteverdi e dei piccoli castelli di Sassa e Canneto nel contado di Volterra. Anche questa guerra, come molte altre, dette scarsi vantaggi e procurò spese e malcon­tento nella popolazione. Nel 1433 si ebbe però la pace tra gli Stati ita­liani che avevano partecipato a queste lotte (Venezia, Firenze, Siena, Milano) e Jacopo II fu costretto a restituire Monteverdi[4] e a tornare nell’or­bita fiorentina.

Il territorio di Monteverdi venne preso nel 1447 da Alfonso re di Aragona e di Napoli, che fece distruggere tutte le abitazioni esterne alla cinta del borgo, liberato dalle truppe di Volterra nel 1449, il 18 luglio 1472 nuovamente restituito alla repubblica Fiorentina a cui gli abitanti giurarono fedeltà. Canneto nel 1501 affittò per tre anni il Pascolo di Canneto e condusse a livello perpetuo dalla Badia la Selva nominata il Vado al Migliolo per libbre sei annue di cera bianca. Il 1549, il 24 settembre, fu rogato nel castello di Monteverdi l’atto di nomina di Iacobo Bernardini e Bartolomeo Micheli di Monteverdi come procuratori generali nelle cause riguardanti specialmente l’affitto dei pascoli, ghiande, erbe ed acque: forse la premessa formale per la costituzione del Comune in questa causa. Nel 1551 il castello di Monteverdi contava 87 famiglie e 342 abitanti. I Signori Capitani di Parte della Città di Firenze il 18 ottobre 1552 concedono a Vallombrosa la torre di Monteverdi con sue pertinenze quale era a livello con obbligo di pagare ogni anno il dì 9 ottobre libbre una cera bianca lavorata. La torre non bastò a difendere i monteverdini da un episodio della guerra tra la Spagna di Carlo V e la Francia di Enrico II che avvenne la domenica 10 febbraio 1555, quando 120 soldati francesi e 80 «venturieri » si impa­dronirono di Monteverdi e della sua torre, saccheggiarono il paese e si ritirarono portando via come prigionieri uomini e donne. Alcuni scam­pati al saccheggio si rifugiarono a Suvereto, ove ne dettero notizia al Capitano Belloncino, che comandava la guarnigione fiorentina. Questi con i suoi cavalleggeri andò incontro ai predatori, li disperse e liberò tutti i prigionieri[5].

Tra il 1561 e 1562 i monaci di Vallombrosa acquistarono cinque case nel Castello e ottennero il permesso dal Comune di costruire una casa e un convento all’interno del paese, il trasferimento fu concesso da Papa Pio IV a condizione che la nuova chiesa continuasse ad essere dedicata a S. Pietro.

I monaci, che dalla fine del XIV secolo avevano di fatto abbandonato Monteverdi, ritornarono nel castello con una presenza stabile affiancando la nuova e modesta chiesa conventuale al patronato della pieve da sempre a loro riservata e nel medesimo tempo si riappropriarono della diretta gestione degli interessi economici legati ai vasti possedimenti terrieri. Per la popolazione di Monteverdi il convento, già nel 1675 non più ufficiato, non rappresentò mai un fulcro della vita religiosa, che nella pieve di S. Andrea coeva e compartecipe della nascita del castello vedevano la propria chiesa, mentre la presenza stabile dei monaci provocò risentimenti nei livellari che per oltre tre secoli avevano limitato i contatti con i proprietari al pagamento dell’annuo canone il giorno della festa di S. Pietro, godendo di libertà e privilegi entrati a far parte della consuetudine. Separando dopo tanto tempo i pascoli e nominando direttamente le guardie i monaci crearono una frattura nella gestione unitaria delle terre e dei pascoli che provocò numerose liti di confine nell’ambito delle comunità di Monteverdi e Canneto, ma anche con quelle vicine. Esemplare in tal senso la lettera dei Nove Conservatori Della Jurisdizione, e Dominio Fio­rentino del 1564:

Allo Spettabile Offiziale di Monteverdi. Spettabile Nostro Carissimo.

Havendo Noi fatta l’informazione della Supplica del Signore Antonio Montalvo Si­gnore della Sassetta per causa dell’Accuse date a codesto Banco con li suoi Sudditi, finalmente S(ua) E(ccellenza) I(llustrissima) ha approvato quanto all’asserire il mo­do propostoli al Magistrato Nostro, e l’ha comandato. E così si segua, cioè che: Quan­do le Guardie de Frati di Valombrosa faran l’accuse con alcuno de sudditi della Sas­setta, senza condurre il Bestiame alla Corte, si debba citare l’accusato con darsi qual­che dì di tempo a defendersi. E quando egli così citato neghi l’accusa, non possa es­sere condannato se l’accusa non si prova per un testimone almeno di veduta, fuori del­la Guardia. Et il simile si osservi quando la Guardia del Comune di Monteverdi, ove­ro gl’huomini particolari, accusassero. E tanto commettiamo a te, e tuoi successori costì, che facciate osservare. Copiando la presente costì in Libro delli Statuti a fine che per statuto e venga in notizia di ciascuno. Quanto alle condennazioni, et accuse di già fatte S(ua) E(cccelenza) I(llustrissima) vuole che habbino glazia. accordando la parte. E così finalmente farai assapere, et osservare. Sta’ sano.

Di Fiorenza, li 9 di Maggio 1564[6]

Dello stesso tenore la rubrica 29 dello Statuto di Monterotondo, del 1578 ma databile ben prima: De la pena de le bestie de la Abatia di Monteverdi danno danti nel iurisditione di Monteritondo.

ltem Che qualunche persona dell’Abbatia di Santo Pietro a Monteverdi darà danno con alcuna generazione di bestie nel tenitorio di Monteritondo, sia punito, e condennato per ciascuna bestia grossa e per ciascuna volta in Soldi dieci di denari, e per ciascuna bestia minuta in soldi cinque di denari, et la mendatione di danno, e questo s’intenda del danno d’ogni tempo tanto di dì quanto di notte, non obstante qualunche Statuto che in contrario disponesse[7].

Il 1564 fu l’anno della chiusura del tormentato concilio di Trento, convocato 21 anni prima, e dell’emanazione dei decreti della Controriforma che trovarono sollecita applicazione a Venezia, Genova e nella Toscana con la creazione dei tribunali dell’Inquisizione cui spettava la condanna degli eretici e la censura dei libri. Cosimo I duca di Toscana legato alla politica pontificia dalle sue stesse ambizioni di diventare Granduca, ricevette il titolo nel 1565, non si oppose al dilagare del potere dell’Inquisizione. Alla Controriforma si aggiunsero presto le bolle papali che rivendicarono l’immunità fiscale per le istituzioni ecclesiastiche: i municipi danneggiati dalle esenzioni da imposte e tasse trovarono spesso accoglienza favorevole ricorrendo alla giustizia granducale. Cosimo I unificò buona parte della attuale Toscana con l’esclusione dei territori di Piombino e dell’isola d’Elba rimaste in mano degli spagnoli. La sua azione di governo modificò la gestione del potere allargandola ad un “primo segretario” e altri segretari con rango di ministri. Lelio Torelli occupò la più alta carica per quasi trent’anni. Il Torelli, già Auditore della Ruota Fiorentina, fu autore dell’Orazione fatta d’ordine di Cosimo I per le esequie del Duca Alessandro del 12 marzo 1536. Il Bianchini[8] di lui scrisse: ”Lelio Torelli da Fano, dottissimo Giureconsulto, e di rara, e profonda erudizione ornato, del quale Piero Vettori, Carlo Sigonio, il Bargeo, Marco Antonio Flaminio, Antonio Agostini Spagnolo, ed altri molti, lasciarono nell’oper loro testimonianze d’eterna lode, per la sua dottrina, letteratura, ed integrità, fu scelto dal Gran Duca per suo primo Auditore , e Segretario, e poi fatto Senatore; e Francesco Torelli di lui degno figliuolo esercitò la carica di Auditore ancora egli dello stesso Principe. E ancora: ”Or dunque il Gran Duca Cosimo I… comandò a Lelio Torelli, suo dottissimo Auditore, e Segretario, che egli, secondo le regole della buona Critica, Trascrivesse, e collazionasse quelle tanto famose Pandette; e poi stampare le facesse. Ubbidì il Torelli, e collajuto di Francesco, suo figliuolo, condusse a fine l’Opera intrapresa; e volle, che a nome solamente del detto suo figliuolo, per amore, che a lui portava, ne fosse fatta la pubblicazione colle stampe in Firenze dal Torrentino nel 1553, in tre grossi volumi in foglio, ed allo stesso Cosimo fossero dedicati.”.

Ad un personaggio di tale caratura, esperto legale e primo ministro del Granduca, venne affidato il processo. Il Torelli, ascoltò diversi testimoni e stilò il rapporto nel quale ricusò la tesi dei Comunisti affermando:” cessa un fondamento fatto da quelli di Monteverdi, che tutto quello che si trova nel Territorio, & Corte d’una Terra, o Castello si presuma appartenere a essa Terra, o Castello, perché quando bene questo, che è molto disputato, fusse vero, procederebbe però in quella Terra, o Castello, che ha la signoria della sua Corte, e non in Monteverdi,  ab antiquo l’avea ceduta quando havuta l’avesse, di sortechè n’era signore o lo Abbate di Valombrosa, o il Comune di Volterra.” Passando ai pascoli scrisse che l’unione non fu fatta per durare in perpetuo, ma per un tempo determinato come dimostrato dalla fine del contratto del 1511 e perché nelle controversie per beni della Chiesa occorre “licenza del Papa o altro Superiore colle solennità debite che allora non intervennero”. Sulla uguaglianza e importanza dei pascoli non ritenne ragione sufficiente il valore degli affitti, considerando: ”la industria et aiuto delli Uomini di quel Comune che potevano colla loro autorità et possanza far riguardare quello della Chiesa più e meglio che li Monaci soli”. A Monteverdi il possesso da parte di privati di terre è documentato anche da compravendite risalenti ai primi anni del XIV secolo dalle quali sarebbe possibile, in base alla descrizione dei confinanti tra i quali spesso appare “la terra dela Badia[9]”, risalire ad una confinazione sufficientemente esatta dei rispettivi possedimenti.

Torelli a conclusione dell’esame della causa scrisse: “Due cose vengano da esser considerate a benefizio del Comune l’una che secondo la detta convenzione del 1392 la Badia non può mette nel pasco bestie de forestieri oltre alle sue et mettendovole è tenuta a fa mallevadori al Comune per conto de danni che a particolari di Monte Verdi fussero dati. Il qual capitolo debbe essere osservato da detti Monaci che si son valsi delle produtione di detto istrumento, l’altra che Ser Silvio da Volterra quinto testimone di detti Monaci dice che li Uomini di Monte Verdi hanno facultà di detta pastura de Monaci senza pagare per li bestiami da cultivar i lor beni, o terratici che esercitano in detta pastura dei Frati. Il che pare conveniente.” Concluse affermando: “ E questo è quanto ha potuto et saputo ricappar in la multiplicità et confusione di tante scritture et tanto antiche et tanto male ordinate e tenute et sì diversamente convenute et osservate tra le quali tanto più cautamente si conviene proceder, quanto la incertitudine e causata maggior è più perplessa in modo che lo innovar le cose possedute fin qui et al presente e piuttosto men sicuro che altrimenti massime trattandosi di cose di Chiese aliene dalla Iurisdizione secolare et attenenti al giudizio et Iurisdizione Ecclesiastica.”

Il 26 aprile 1568 il rapporto fu approvato dai Magnifici Nove della Jurisdizione et Dominio Fiorentino e diventò sentenza.

L’anelito di libertà dei Comunisti monteverdini che avevano promosso la causa, e gli interessi economici che ne costituivano solida premessa, trovarono parziale soddisfazione nella sentenza Torelli che rappresentò una pietra miliare per gli uomini di Monteverdi nella affermazione dei propri diritti e nell’emancipazione dalla tutela abbaziale, all’ombra della quale e grazie alla quale Monteverdi e Canneto videro la luce come comunità civili.

Il bilancio dell’azione legale, valutato anche in relazione alla complessità della struttura dei diritti feudali derivanti da sovrapposizioni e sedimentazioni di antichi ordinamenti giuridici, risultò positivo laddove i monteverdini, avendo chiesto il possesso di tutto il territorio del castello e della corte, si videro confermare l’esistenza - ab antiquo - di libere proprietà comunali e individuali, l’usufrutto sui terreni di proprietà dei monaci, il diritto di pascolo per le bestie dome utilizzate nelle lavorazioni dei campi e il vincolo per questi ultimi di non mettervi bestie altrui. Il verdetto riconfermò indirettamente anche il diritto dei monaci di pascolare il loro bestiame nelle terre dei livellari l’anno in cui non si seminava, secondo l’usanza tipica maremmana: un’ingiustizia di cui gli uomini di Monteverdi non tardarono a rendersi conto.

Canneto, che si organizzò con propri Statuti nel 1425, pur condividendo con Monteverdi la medesima storica soggezione ai diritti abbaziali, a questo processo non partecipò: mai citato nelle tesi accusatorie con intenti rafforzativi, viene ricordato quasi incidentalmente dalla difesa dei monaci. Lo scontro avvenne esclusivamente tra Badia e Monteverdi e la stessa sentenza non nomina mai Canneto.

La conclusione della causa non migliorò i rapporti tra monaci e monteverdini: negli anni successivi le tensioni andarono aumentando sfociando nuovamente nella citazione in giudizio del 1750. I temi di questa causa furono riproposti con maggior forza nel 1778 con argomentazioni, da parte dei monteverdini, che misero in dubbio l’origine del potere abbaziale mirando a sgretolare le fondamenta stesse sulle quali nei secoli furono costruiti gli obblighi e le servitù che asfissiavano gli abitanti del castello e delle campagne di Monteverdi.

Rimangono oscuri i motivi per cui i Comunisti o i loro procuratori legali non produssero direttamente il documento del 1392 su cui ampiamente si basò il Torelli nell’esame della causa e che fece pendere la bilancia della giustizia in loro favore: suscita perplessità che i monteverdini potessero aver rimosso ogni memoria storica e di archivio di un contratto a loro favorevole, mentre risulta certo, come appare da documenti successivi, che i loro avvocati non ebbero accesso all’archivio di Vallombrosa; invece l’ipotesi che pur conoscendo i monteverdini ed i loro legali l’atto del 1392 non lo utilizzassero perché comprovante diritti certi, ma minimi rispetto alle richieste, sottintende un’ardita e complessa strategia processuale. Dal canto loro i monaci godettero del raro privilegio di un archivio storico privato, che setacciarono a fondo operando una attenta selezione degli atti utili alla difesa. Curiosamente questo stesso documento, ripresentato nella causa avviata il primo dicembre 1778 che oppose il Comune di Monteverdi alla Badia e all’Assessore Jacopo Paoletti, diventato dal 1783 unico livellario perpetuo dei beni abbaziali, fu ricopiato nel 1784 dall’originale esistente nelle mani dello stesso Paoletti, poiché non ne esisteva più copia presso l’archivio di Vallombrosa.


[1] I corsivi non altrimenti specificati sono tratti da: Sententia dei Magnifici Sigg. Nove Conservadori della Giurisdizione, e Domino Fiorentino in fra li RR. Monaci della Badia di Valembrosa per conto della Badia di Monteverdi, &la Comunità, & Uomini di Monteverdi. Per Relazione del Magn. & Eccel. M. Lelio Torelli. Doc. num. XXIV in Sommario di documenti nella causa Volaterrana seu Montisviridis manutention. Archivio Storico Comunale di Monteverdi Marittimo.

[2] L’edizione del 1325 è in F. Alunno, Lo Statuto trecentesco di Monteverdi, tesi di laurea Università degli Studi   

  di Firenze, a.a. 1995/96. Il testo è disponibile all’indirizzo Internet: www.idr.unipi.it/iura-  

  communia/Monteverdi_stat.html

[3] E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Firenze 1839, vol.V,  pag.552.

[4] L. Giannecchini-V. Sguazzi, Suvereto Storia, Lucca 1972, pag. 75

[5] L. Giannecchini-V. Sguazzi, op. cit, pag. 106

[6] M. Bartolini, Sassetta primo feudo mediceo, Livorno 1990, pag. 254.

[7] G.E. Franceschini, Lo statuto di Monterotondo Marittimo, Siena 1997, pag. 88.

[8] G. Bianchini, Dei Granduchi di Toscana, ragionamenti istorici, Venezia, 1741, pagg. 11 e 15.

[9] Si veda in proposito: A. Stussi, Un testo volgare del primo trecento di Monteverdi Marittimo, estratto da Testi e Interpretazioni, Ricciardi ed.,  Milano 1978.

 



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