Tutto
ha un prezzo. Lo sapeva, fin da piccolo la mamma gli aveva insegnato
che tutto costa. Spesso il costo è il sudore della fatica,
la sete e la fame, le ferite del corpo e dello spirito. Nulla
ti viene regalato, lo devi conquistare e meritare. Tornavano
spesso alla mente queste parole che venivano ripetute in ogni
occasione perché adatte alla consolazione o come premio.
Chinz aveva imparato presto che doveva guadagnarsi da mangiare.
La mamma li aveva allattati per tre mesi e papà, dopo
un lungo lavoro, portava a casa un po’ di carne che non
bastava per tutti: quattro figli erano tanti anche per mamma
lupa. Non che mancasse il cibo nel loro territorio, anzi era
ricco di ogni tipo di animali: cervi, daini caprioli, cinghiali,
istrici, tassi, lepri, scoiattoli e fagiani, insomma di che
variare frequentemente dieta, senza farsi troppi nemici.
Semmai mancava l’acqua, ma solo d’estate e non sempre,
e quando tutti avevano sete per loro era più facile cacciare
vicino alle poche pozze. Erano i signori incontrastati della
macchia. C’era stato un tempo in cui avevano dovuto inchinarsi
alla forza e alla grandezza degli orsi, ma da anni non se ne
erano più incontrati e le nuove generazioni non conoscevano
l’odore delle loro tracce. L’ultimo si aggirava
ai margini del loro regno, a sud ovest, vicino al corso d’acqua
che gli umani chiamano ancora Rivo Orsajo o Corsojo. Già,
gli umani, quelli che, pur riconoscendo a loro la proprietà
del territorio, che chiamavano rispettosamente Macchia Lupaia,
lentamente avevano occupato i terreni migliori e deviato le
acque.
All’inizio sembravano dei buoni vicini, avevano portato
grasse pecore e teneri agnelli e i lupi prelevavano il giusto
tributo, come usano gli antichi proprietari delle terre, ma
presto gli umani si sottrassero al pagamento della tassa organizzando
battute, preparando trappole e lacci, seminando veleni.
Si arrivò alla guerra e forse la sorte dei lupi sarebbe
stata migliore se non ci fossero stati quei traditori dei cani
che si misero al servizio degli umani per combattere il loro
stesso sangue. Gli altri animali si adattarono alla nuova situazione
e ottennero dagli umani la possibilità di vivere accettando
che alcuni di loro si sacrificassero per sfamare i crescenti
appetiti umani.
Non che tutti gli umani fossero dei nemici, si raccontava di
un lupo scontroso che aveva fatto amicizia con un uomo di nome
Francesco che sapeva parlare la lingua dei lupi, di un altro
lupo che, spinto dalle esigenze di una famiglia numerosa, aveva
ucciso un bue il cui proprietario, Eustorgio, gli chiese di
prenderne il posto sotto il giogo del carro e la strana collaborazione
durò a lungo. Dicono fossero santi. Gli uomini.
Astuti, erano furbi gli umani, ma anche avidi. La guerra aveva
portato morte tra le pecore e tra i lupi, era tutto nelle regole,
finché ogni branco di umani decise di dare un premio
a chi uccideva un lupo e un prezzo alla sua pelle.
Lo strano era che uccidevano ma non mangiavano carne di lupo.
Nel 1325 i banditori girarono le campagne annunciando :”chiunque
di Monte Verdi o della sua corte catturi qualche lupo adulto,
e il lupo o la sua pelle presenti al camerario del Comune con
la testa del lupo, abbia e debba avere dal camerario del Comune
soldi 5 di denari, per un lupo senza pelle così catturato
ucciso e presentato e per ogni lupacchiotto presentato al camerario
soldi 2 di denari.”
Cento anni più tardi anche Canneto prezzò la vita
dei lupi:” 20 soldi per un lupo o lupa uccisi, 10
soldi per ogni lupo vecchio, 5 soldi per un lupo piccolo.”
Ancora cento e poco più anni e Sassetta fissò
nuove quotazioni: “Per stirpare, et annihilare i Lupi
destruttori delli Armenti, si ordina a ciascuno che ammazzerà
Lupi in la Corte della Sassetta Lire tre e soldi dieci per qualunque
delli Grandi; e delli Piccoli soldi dieci per qualunque. Da
trarsi detto Premio per rata di quelli che haveranno Bestiami
in la detta Corte della Sassetta; da pagarsi in mani del Camarlingo,
quale sia tenuto infra un Mese risquoterli, e pagarli.”
Monterotondo non volle essere da meno:” Et quella persona
che pigliarà, o occiderà alcuno lupo, o lupa nela
corte, o iurisditione di Monteritondo voliamo che habbi, et
haver debba dal Camarlengo del Comun nostro libre quattro di
denari per ciaschun lupo, o lupa grossa, e soldi dieci per ciascun
lupattone, non possendo pagare detti denari se prima oculata
fide detti lupi, o lupe presi, e morti, e similmente detti lupiccioni,
e detto Camarlengo contra farà ale cose predette caggi
in pena di libre cinque di denari per ogni volta.”
Campiglia, alla metà del ‘500 pagava “lire
sette per ogni lupo grosso et lire dua per ogni lupotto”,
suddividendo le spese tra tutti gli allevatori della corte.
Ogni cento anni il costo della vita di un lupo adulto aumentava
di quattro volte mentre quello di un lupacchiotto raddoppiava,
secondo i calcoli degli umani, visto che ogni libbra corrispondeva
a 20 soldi e ogni soldo a 12 denari. I saggi lupi anziani, quelli
che i cannetani - oh avessero saputo il valore dell’esperienza
- avevano valutato solo la metà di un adulto, dicevano
semplicemente che più le taglie degli umani aumentavano
meno lupi restavano. Era lo sterminio. Avevano persino incaricato
un cacciatore specializzato, detto luparius, e talvolta
nominavano un ergastolano o un esiliato che in cambio della
pelle dei lupi si salvava la sua.
Queste storie le aveva ascoltate attentamente dagli anziani
e Chinz aveva pensato che da grande le avrebbe raccontate ai
suoi cuccioli. Ma così non era stato, era rimasto l’unico
lupo di Macchia Lupaia. Da tempo aveva smesso di cacciare pecore
e agnelli, di farsi vedere dagli umani, si faceva sentire solo
nella stagione degli amori ululando per chiamare la lupa che
volesse dividere con lui quel piccolo regno e, dopo stagioni
passate ad ascoltare lunghi silenzi, aveva capito che nessuna
femmina avrebbe risposto al suo richiamo: la voce che Macchia
Lupaia era perduta si era sparsa in ogni branco. Gli umani avevano
quasi vinto. Era inutile dar colpa ai cani, traditori, che avevano
scelto di vendere la loro libertà in cambio di un lavoro
e di una ciotola di cibo rancido, forse avevano fatto anche
bene ad allearsi col più forte, a quel punto chi poteva
giudicare, non certo lui che aveva sempre respirato aria e libertà,
le uniche cose che gli sembravano pulite.
Le famiglie che abitavano i dintorni erano state sterminate
o se ne erano già andate: i vicini del Macchione
dei Lupi di Suvereto, quelle dei torrenti Lupicaia
che si buttano uno nella Sterza e l’altro nella Cecina,
di Val di Lupa di Castellina, dei Poggi della Lupa
di Bibbona e di Casale, la dinastia del Poggio al Lupo
di Piombino, di Castagneto, di Massa Marittima, quella de La
Lupa di Cecina, quelle del Piè di Lupo
e Piè di Lupino di Rosignano.
Ora toccava a lui, si trasferiva sui monti di Ripomarancia.
Lasciava ai cinghiali - così il cinghiale divenne il
Re della macchia - e agli altri animali il suo regno incontaminato
e il compito di vigilare contro l’invadenza degli uomini
e delle loro attività. Se ne andava dopo aver tanto resistito:
il nuovo secolo, il XVII, lo avrebbe trovato sui pascoli più
alti, lontano dagli umani.
Aveva deciso di arrendersi, non agli umani, alle loro armi,
ai loro trucchi e alle loro avidità, no queste cose non
potranno mai sconfiggere la natura, forse umiliarla non vincerla:
Chinz il solitario si arrendeva al dolce richiamo della lupa
che gli aveva cantato le gioie di un posto tranquillo per costruire
una famiglia e un migliore futuro. Aveva ceduto solo all’amore,
la sua ultima vittoria.
Alessandro Colletti, 1997-1998