da “Lumiere di Sabbio (Racconti d’infanzia)” di Emilio Agostini.
I Quaderni del Circolo Culturale “Emilio Agostini” Sassetta
Unsero il frantoio, quell’anno, poche pilate di olive di
Nisio, benestante del Poggio, il quale possedeva una
oliveta di quattro staiora in luogo solatìo, propizio per
tutte le seminagioni e specialmente per le piante da frutto.
Una sciroccata, venuta verso i primi di ottobre, con tempo
piovoso e con guazze dense e con caldo, dopo, come di vera
estate – mentre ci sarebbero voluti venti di tramontana ghiacci
e asciutti – aveva portatola mosca in grande quantità e le olive
in pochi giorni erano andate perdute.
Annata astiosa del resto, per lui e qualche altro
solamente, perché a molti, senza saperne spiegare la causa,
vennero a bene e maturarono adagio adagio sui rami e
cascarono adagio, e le ultime, quelle delle vette, convenne
sdrusciarle, se no vi sarebbero rimaste fino alla Pasqua
d’aprile, fino alla potatura, quando si taglia la frasca e se ne
fanno palme intrecciate da benedirle in chiesa e fastelli da
bruciarsi, divenuti secchi.
Nisio, raccattate le olive cadute e rimasto a vedere la
piega che avrebbero preso le altre, una mattina, perduta la
speranza e pure fattosi di rassegnazione coraggio, menò al
pezzo degli olivi la moglie e le sue ragazzette, e, distese sotto
le piante le coperte levate dai letti, cominciò da una parte a
sdrusciare le rame.
La quantità corrispose alla buona annata; ma quando
portarono le olive al nostro frantoio per frangerle e il capo
frantoiano Giobbe ebbe aperto il sacco e ne ebbe presa una
giumella per guardarla meglio alla luce, fu una esclamazione
compassionevole di dispiacimento: Peccato! avrebbero buttato
perlomeno diciannove fiaschi, se non fossero state bacate!
Invece dettero appena da untare il frantoio, e a Nisio da far
lume e da condire per mezza annata.
A Giobbe dispiacque di cominciare la lavorazione così, e
sfatto il castello, levate le sanse, fece lavare con acqua bollente
le bruscole nuove e risciacquare con acqua bollente le conche
adoperate a raccogliere l’olio e il piatto e il boccale di latta e
fece gettare via dall’inferno le morche, perché non vi rimanesse
quell’odore d’olio cattivo.
Vennero presto le olive belle, le olive della Lama, di
Colli, del Logo e delle costiarelle intorno al paese; olive di
piante in forza, vegete fra terreni molto pietrosi e bene esposti,
belle olive grosse, liscie, lucide, che facevano una pasta
rossastra, come certe viole macchiate di giardino, pasta sparsa
di puntolini d’oro, dalle goccioline scorrevoli dell’olio
spremuto.
Il Pancioni, che faceva da garzone, andava fra una
frantura e l’altra, alle case con le sacca e lo staio a prendere le
olive; le caricava sul cavallo e le portava in una stanza
intavolata adatta, dalla quale, dopo ripulite dalle foglie, si
lasciavano cadere sul piatto della macina per mezzo d’una
tromba di tela inchiodata alla bocchetta aperta del tavolato. La
macina grande, di sasso vivo, era girata da un cavallo
attaccato alla stanga. Le olive, cascando dalla tromba sul
piatto, mentre si assettavano in giro con le mani, spargevano
un piacevole odore amarognolo che sapeva lontanamente di
riscaldato.
Il cavallo mangiava intanto il pastone di semola e farina
nella cassetta, stando disciolto, solo, in disparte, a un angolo
del frantoio, dove si gettava la sansina strinta. Il frantoiano,
mossa la macina, andava dietro al cavallo, dando a ogni giro
con la pala di legno le olive e togliendola pasta dal piatto.
Avviata la macinata, era concesso di fare qualcosa anche a noi
ragazzi. Uno andava dietro al cavallo tenendosi con la mano
alla stanga e toccandolo con una mazza di gelso, ogni tanto, se
rallentava il passo e se non obbediva alla voce; l’altro si
metteva ritto intirizzito in un canto, davanti al punto di presa
delle olive e appena passata la stanga, veniva presto innanzi,
dava la palata, presto, in modo che non gli rimanesse la pala
sotto la macina e tornava ritto intirizzito al suo posto.
Perché la pasta fosse ben fatta occorreva un’ora e un’ora
e mezzo di lavoro: la macina girava piano, qualche oliva
sgusciava sotto e Giobbe aveva l’abitudine di girarla due volte,
per aver subito l’olio pulito, prima di rifare le sànsine, che
davano olio di qualità inferiore. A noi altro lavoro non era
concesso, se non quello di dare i primi buchi con la stanga
piccola, girando l’argano col canapo, che aveva da una parte la
cappia da agganciarsi ed era così grave, che, svolto un
pochino,lasciava frullare le stecche dell’argano, senza girarlo
con la mano. Si poteva però scendere con Giobbe nello
schiaritoio, lo stanzino dove sgrondava l’olio dal gorello e
dalla doccia della strettoia e dove veniva cappiato nelle larghe
conche e poi travasato nei coppi di terra cotta verniciati al di
dentro e nei coppi di bandone, chiusi da lucchetto. Là giù, alla
luce di un lume a mano, si stava a vedere cappiare l’olio,
imparandone il modo.
Giobbe era maestro nell’arte, il più reputato frantoiano
delle vicinanze. Quelli che avevano lavorato qualche anno
sotto di lui, erano ricercati dai padroni di altri paesi. Egli poi
godeva comune lode e fiducia per la sua onestà: rendeva
sempre a ciascuno l’olio delle proprie olive, non lo barattava e
non lo mescolava con altri e non rendeva olio di cotone, come
certi furfantoni che si erano arricchiti male, così.
Nel cappiare aveva una mano agile e bella a vedersi;
toglieva dalla morca l’olio fino a una gocciola e quando,
soddisfatto dell’opera sua, ne prendeva col piatto di latta e lo
lasciava ricadere largamente dal sottile contorno, si vedeva
contro alla luce un olio bianco, pulito, trasparente o giallo
d’oro talvolta e limpido come l’ambra liquida.
Del migliore, di questo, dava a chi veniva a fare la
crogentina; di questo dava per la crogentina anche a noi
ragazzi. Arrostivamo le lunghe e sottili fette del pane al
fornello della caldaia, dove il bianco fuoco di sansina e di
legno dolce, facevano brusta rossa odorosa; sulle fette del pane
arrostito si fregavano i capi d’aglio mondato soltanto a mezzo
e così le mettevamo a inzuppare nei piatti dell’olio,
spargendole di sale fine. Avevano un sapore acutino e
croccante, che ricreava e satollava lo stomaco.
Venivano a fare la crogentina nelle ore di riposo,
qualche volta per settimana, gli opranti che lavoravano al
paese; venivano più spesso queste donnicciuole, che non
avevano nulla, se non la calza, da fare e risparmiavano il
companatico; barattavano due burlette e tornavano a casa con
una bella caldanata di brace, di quella brace compatta che
consuma lenta.
La crogentina per noi era premio grande, perché ci
pareva guadagno del nostro lavoro. Se ce lo concedevano,
prendevamo parte ai lavori con vera passione d’uomini.
Prima ancora dell’alba, nelle ore avanti giorno
dell’inverno, in quelle ore buie, silenziose, nelle quali non si
vede altro che raramente passare una lanterna accesa per le vie
deserte, lanterna forse di mulattieri, che rientrano nelle stalle a
governare i muli o a mettere i basti, dando una voce alle bestie
giacenti sugli umidi patti, alle bestie che si alzano stirandosi,
tentennando le bronze; forse di carbonai, che vanno a rivedere
il fuoco, messo la sera nelle carbonaie della legna; forse di
barrocciai viandanti, che tornano verso i sobborghi delle città
lontane coi loro barrocci caricati la sera; o forse di qualche
disgraziata donna che torna da vegliare il malato grave –
prima ancora dell’alba, in quelle ore fra le quali non si sente
che lo schioccare dell’acqua, che sgronda dalle grondaie senza
doccia, sui lastricati, se piove, o l’abbaiare di un cane a un
passo affrettato della strada;ore che si dormono tutte come di
primo sonno, in inverno – noi mattinieri, riposati abbastanza,
eravamo alzati già di quelle ore prima dell’alba, svegli, con gli
occhi lucenti, per quanto rimasti senza lavare essendo ghiaccia
l’acqua, – e mangiavamo la parte della nostra cena serbataci,
aspettando inquieti se i frantoiani tardavano ad aprire il
frantoio.
Tre pilate di olive e le sansine da rifare, volevano tempo
abbastanza e bisognava attaccare di levata molto sollecita.
Qualche mattina la sveglia si faceva noi. Anzi, una volta
che si era trattato di macinare quattro pilate di olive in un
giorno, con una bestia sola, avuto da Giobbe, che era di buon
umore, proprio noi l’incarico di fare la sveglia, si andò a letto
di prima sera, avanti la cena consueta, avanti l’ora di notte.
L’orologio di piazza suonava alla francese: batteva fino a sei
colpi soltanto, alle sei quanto al mezzogiorno e alla
mezzanotte. Svegliati dal suono dell’orologio, si contano
cinque colpi; si aspetta la replica; se ne contano sei.
‘Ahimè, che ora! come? così tardi? le sei! Dormiglioni,
bella figura davvero!’
Per quanto ormai sfiduciati e rassegnati ad ogni beffa, ci
vestimmo subito, con una vana speranza incompresa nel
cuore. Non pensammo allora neppure che le calze erano di
lana nostrale e che ci bucavano. Si accese il lume a mano e si
scese giù senza svegliare nessuno, nemmeno la serva; si scese
in punta di piedi, velando con la mano la luce del lume nel
passare davanti alla porta delle altre camere.
Aperto l’uscio d’ingresso, chiuso da paletti e stanga, si
corse al frantoio: era sempre chiuso. Allegri allora di non
essere stati vinti, si salirono in fretta a tasto le scale della casa
di Giobbe e si bussò all’uscio col palmo della mano. Giobbe
dormiva, che felicità! Essere stati i primi ad alzarci, senza che
alcuno ci avesse svegliato! Demmo le voci di sveglia, bussando
di nuovo all’uscio, ora coi tacchi delle scarpe, oltre che con la
mano. Giobbe si destò.
- Chi è? cosa volete a quest’ora?… E’ presto, è sempre
presto!…
- Levatevi, Giobbe, è tardi; sono suonate le sei; oggi ci
son quattro franture!
A sentir l’idea di quell’ora fra il dormiveglia, Giobbe
saltò dal letto e venne ad aprire mezzo addormentato e
svestito, con la papalina di maglia bianca in capo.
Ma quando si affacciò e dette un’occhiata alle stelle, che
cominciavano appena a calare dal cielo lontano, conobbe dalle
stelle che l’ora era sempre di notte. Luccicavano bianche le
stelle minute nel cielo, lontane, di un chiarore sottile che le
circondava, simile a una piccola nube, ma lucida di
trasparenze. Del rimanente fra l’ombra non era barlume di
luce ed i fichi ed i mandorli e i gelsi dell’orto e gli olivi, non si
distinguevano che come contorni più neri dell’ombra. Giobbe
ci fece passare e accese col lume la frasca già preparata la sera,
troncata sui nitidi alari. Poi si vestì della maglia, ma parve
svogliato e più stanco. Alfine pensando che forse il dormire fa
camminare l’ore più presto e che rincresce lasciare il calduccio
del letto, si mosse, discese la scala. Nel tempo che metteva la
chiave nella serratura, batté l’orologio di piazza e batté solo un
tocco. Era l’una di notte e voltandosi indietro adirato, Giobbe
ci disse alcune parole cattive; ma poi ci ricondusse in casa, oh
in fondo certo con un sorrisetto nel cuore.
Tanta era stata l’ansia del nostro svegliarsi per tempo…
Fra le altre cose ci piaceva vedere accendere il lume
grosso a tre becchi, sospeso alla trave per una funicella
scorrevole sur una piccola carrucola mantenuta unta.
Ciò di mattino.
E il giorno nessuno di noi si muoveva mai dal frantoio.
Non ci attiravano più le urlate che salivano di sotto la chiostra
e venivano forse dalle stanze del Bussotti, dove i compagni
nostri dovevano giuocare a buchetta, o dall’arco della stalla
dei Gigelli, dove facevano alle spinte o al giuoco della
bandiera. In quei momenti non ci attiravano più troppo
neppure i giuochi. Pareva venuta l’ora di una nostra infantile
impresa più seria.
Chi si era provato a imitare il lavoro del frantoio? Gigi
di Biagio, sì; ma aveva fatto ogni cosa di sabbio rosso, come le
lumiere e le macchine e le carrozze con le ruote senza razzi; le
olive però non si macinavano, rimanevano dentro la ruota
intere, se non facevano guastare i congegni.
Chi aveva pensato di trovare una macina di sasso
veramente? Si era stati al Molino di Mezzo, vicino allo
sdrucciolo delle lastre di Bufalaio, dov’era una macina vecchia
d’un frantoio abbandonato; si era stati anche a vedere un’altra
macina che lo scarpellino Masetto, lavorava nella sua cava di
pietra dura alla Piaggia. Ma al vedere quelle moli di sasso, a
sentire la durezza del sasso, che non cedeva alle punte dei
chiodi grossi, cadeva ogni nostro proponimento. Prender parte
al lavorìo dei frantoi veri, dunque. Tutto il giorno là, se
volevano, intorno alle bruscole, intorno all’argano e ai ceppi,
su nella stanza delle olive a rivoltolarle, perché non
ammuffissero; a spalare la sansa che cascava dal monte e
ingombrava. Dopo cena quasi sempre veniva gente a vegliare.
Capitava Minega lo scemo, capitava la Teresina di Bastiano,
abituata a venire al frantoio quando non si frangeva, avendoci
bottega di legnaiuolo suo marito. Intanto che il castello delle
bruscole, sotto i ceppi dello strettoio, si riposava e sgrondava
olio a gocciole e a fili gialli sottili – si stava intorno a Minega
perché contasse la sua novella. Minega, lo scemo, ne sapeva
una; contava sempre la stessa alla maniera sua, che faceva
ridere tanto.
‘Questo Flurindo andava a fa’ sempre pulizzia. Voleva
accende’ la fumma e non aveva el fiammifero. E da quella via gli si
aggrovigliolò un serpente al collo. Ora il tempo delle novelle passa
presto, va costà alla tonda al ponte di Macallè. Il tempo delle novelle
passa presto, ammazzarono tutti cignali, colombi e via. Il tempo delle
novelle passa presto, arrivò a Marsiglia; il tempo delle novelle passa
presto, arrivò a Marsiglia…’
Così, con queste ultime parole, continuava fin tanto che
ci si divertisse a sentirlo e non gli si dicesse: basta! Fra una
frase e un’altra, senza finirla, faceva una osservazione sua, se
gli cadeva sott’occhio qualcosa che lo impressionasse
- Questa cos’è?
- Una catena lustra, di diamanti.
- Ah una catena di diamanti! Uh bella… eh…
- Questo cos’è? questo cos’è?
- Un canapo, una stanga di leccio…
- O voi, mi date un paio di scarpe? l’ho tutte rotte…
Fra una frase e un’altra, si lasciava allargare la bocca da
qualche sbadiglio e finiva con le sue solite parole, quando
pareva a noi;
‘Mangiarono e bevvero; a me niente mi dettero…
- Come nulla?
… mi dettero un panetto di pane e un fiasco di vino e io ne feci
una panciata come un salacchino.’
Altre volte in ore migliori, gli stavamo attorno
costringendolo a raccontare i suoi amori con la Nena del
Bocchi. Il disgraziato, per una di quelle ignote ragioni che
muovono gli atti e i sentimenti di certi organismi e di certe
coscienze discese in basso fino a commuovere di pietà altrui,
pure l’estraneo – diceva d’essere innamorato di questa Nena,
una buona ragazza, figliola di buona famiglia. Qualcuno lo
aveva sentito, tornando nella sua catapecchia, lo aveva sentito
parlare da sé e lo aveva veduto gestire come se veramente
fosse stata davanti a lui la ragazza.
- Nena, tieni; questo è il pane; questa è la minestra; via, metti
la pasta; fai bollire il paiuolo; fai la polenda, chè ti voglio bene…
I ragazzi gli urlavano dietro queste frasi, imitate con
ogni bizzarria di voce. Egli si voltava a tratti, mostrando i
denti, come certi cani di campagna, che passano con la coda
fra le gambe e si rivoltano con un abbaio rabbioso ai cani del
paese che li rincorrono dopo essersi raccolti insieme. Irritato,
andava a rintanarsi nella sua stamberga, una stanza buia, in
fondo al corridoio d’una casa disabitata, dove dormiva per
terra fra i calcinacci del pavimento scempiato, e non usciva fin
tanto che gli duravano i tozzi del pane raccolti nei giorni
precedenti, bussando alle porte. Di uno scherzo tenne molto
rancore anche a noi.
Gli avevamo in frantoio mescolato dell’olio di ricino a
quello di oliva, datogli per la crogentina. Aveva avuto dei
disturbi; non era tornato a trovarci, non era tornato più
all’elemosina a casa nostra in giorno di sabato, non aveva
voluto accettare il pane che gli avevamo mandato da noi
stessi. Venne soltanto l’ultimo pomeriggio della stagione.
Rimaneva da stringere una frantura di sansine; ci doveva poco
più tardi essere la maccheronata in frantoio. Arrivò che le
donne scodellavano, nei vassoi tondi, i maccheroni tagliati a
quadrucci, e li coprivano di salsa piccante e di formaggio
grattato. Quell’odore di stracotto cucinato bene, che si sentiva
di fuori dalla strada, ce lo riconciliò. Noi stessi, pentiti dello
scherzo passato, sentivamo il bisogno di ricompensarlo con
buone accoglienze. Giobbe lo fece sedere e fu il primo a
colmargli una scodella di maccheroni.
Ma più tardi, verso la fine del mangiare, mandata a
mezzo la damigiana del vino, ricominciò l’allegria. Minega
aveva mangiato a crepa pelle, con una voracità di bruto
rimasto a lungo digiuno; aveva anche bevuto vino pretto,
senz’acqua, e il vino già gli aveva dato alla testa. Non volle
contar la novella, ma cominciò a parlare della sua povera
Nena, che gli voleva bene, diceva. Nel brio, si tinse il viso di
morca; noi gli appiccicammo allora sul viso e intorno al collo
penne di gallina; si cominciò a dirgli che era bello, che stava
bene, che pareva un signore, che doveva andare in quel modo
a trovare la Nena. Gli atti di contentezza, il passeggiare
rimpettito che faceva di qua e di là, quasi per prova, ci
convinsero che ci sarebbe andato davvero.
Pure, quando uscì non lo seguitammo. Si rimase in
frantoio per attendere alla sistemazione degli utensili, che
dovevano essere riposti. C’era in ognuno di noi una mesta
passione di cui l’animo penava un poco. Giobbe ci aveva
parlato della sua soddisfazione anche per la lavorazione di
quell’anno; aveva lodato il nostro frantoio, la forza della
madrevite, la bontà e la durezza della macina, la resistenza
dell’argano e dei canapi, la docilità del cavallo. E noi eravamo
molto soddisfatti del nostro piccolo orgoglio, di quelle cose
che ci appartenevano e che non ce ne facevano invidiare altre
ad altrui. Cosa c’importava se a Castagneto c’erano i frantoi a
vapore? Se a quello del Moratti, a quello del Conte della
Gherardesca, macinavano tante e tante franture di più e tutto
andava a vapore? Nulla c’importava. Giobbe era il miglior
frantoiano delle vicinanze; cappiava l’olio come nessuno
sapeva; al nostro frantoio era difficile che succedessero
disgrazie, e poi quando si davano gli ultimi buchi con
l’argano, si vedeva, alla croce, chi aveva forza e chi aveva
malizia.
Nulla c’importava.
Ai frantoi dei più ricchi, era proibito che entrassero le
persone estranee. Al nostro, venivano con ogni libertà i vecchi,
fino i mendicanti e i fanciulli e ognuno aveva un precetto e un
consiglio saputo dalla sua gioventù o un piccolo gesto di
bambino che dava allegrezza; venivano i disgraziati da tutti i
paesi, che giravano il mondo e spesso non avevano il pane e si
contentavano del fuoco da scaldarsi un momento o da
asciugarsi i panni bagnati dalla pioggia.
Il contatto cogli umili ci rendeva una pietà fraterna e
una modestia cara, per le quali gli agi modesti di casa nostra,
potevamo dividerli con lo sconosciuto che arrivava all’uscio
non si sa di dove.
Così chiudendo per l’ultima sera il frantoio, la pena era
di più rincrescimenti: ci sembrava pure che a quella porta
chiusa, sarebbero arrivati, nei seguenti giorni, mendicanti
senza ricovero. La serratura, messavi dentro la chiave per
chiudere, non voleva serrare. Le pioggie spinte dal vento
avevano fatto ingrossare il legno. Da diversi giorni pioveva e
la terra nei luoghi piani era tutta sott’acqua e minacciava frane
d’argini in ogni parte esposta a cadere. Si uscì sotto una
pioggia scrosciante, grossa come le funi. Poco dopo, mentre
nello scrittoio assistevamo Giobbe che dava le consegne della
lavorazione a nostro padre, fra lo scroscio fragoroso della
pioggia che continuava, si sentì una romba sorda, come d’una
frana. Calmata la pioggia bussarono all’uscio. Era franato il
muro dell’Orto di sotto, sopra il lavatoio e l’abbeveratoio
comunali. Nel buio, sotto le rade goccie di pioggia che
cascavano ancora, molte lanterne giravano intorno alla frana.
Quando arrivammo anche noi, spaventati, si udì una voce che
si lamentava fioca dietro a un muricciuolo.
Uno che si avvicinò con la lanterna e con la zappa per
liberare il disgraziato, riconoscendolo, disse forte in modo che
tutti s’intese:
- Guà, anche questa volta ti è andata bene, Minega!
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