• Raccolta delle olive.

    Posted on 27 gennaio 2014 by Alessandro Colletti in Notizie.

    La racccolta delle oliveRACCOLTA DELLE OLIVE

    da “Lumiere di Sabbio (Racconti d’infanzia)” di Emilio Agostini.
    I Quaderni del Circolo Culturale “Emilio Agostini” Sassetta

    Unsero il frantoio, quell’anno, poche pilate di olive di
    Nisio, benestante del Poggio, il quale possedeva una
    oliveta di quattro staiora in luogo solatìo, propizio per
    tutte le seminagioni e specialmente per le piante da frutto.
    Una sciroccata, venuta verso i primi di ottobre, con tempo
    piovoso e con guazze dense e con caldo, dopo, come di vera
    estate – mentre ci sarebbero voluti venti di tramontana ghiacci
    e asciutti – aveva portatola mosca in grande quantità e le olive
    in pochi giorni erano andate perdute.
    Annata astiosa del resto, per lui e qualche altro
    solamente, perché a molti, senza saperne spiegare la causa,
    vennero a bene e maturarono adagio adagio sui rami e
    cascarono adagio, e le ultime, quelle delle vette, convenne
    sdrusciarle, se no vi sarebbero rimaste fino alla Pasqua
    d’aprile, fino alla potatura, quando si taglia la frasca e se ne
    fanno palme intrecciate da benedirle in chiesa e fastelli da
    bruciarsi, divenuti secchi.
    Nisio, raccattate le olive cadute e rimasto a vedere la
    piega che avrebbero preso le altre, una mattina, perduta la
    speranza e pure fattosi di rassegnazione coraggio, menò al
    pezzo degli olivi la moglie e le sue ragazzette, e, distese sotto
    le piante le coperte levate dai letti, cominciò da una parte a
    sdrusciare le rame.
    La quantità corrispose alla buona annata; ma quando
    portarono le olive al nostro frantoio per frangerle e il capo
    frantoiano Giobbe ebbe aperto il sacco e ne ebbe presa una
    giumella per guardarla meglio alla luce, fu una esclamazione
    compassionevole di dispiacimento: Peccato! avrebbero buttato
    perlomeno diciannove fiaschi, se non fossero state bacate!
    Invece dettero appena da untare il frantoio, e a Nisio da far
    lume e da condire per mezza annata.
    A Giobbe dispiacque di cominciare la lavorazione così, e
    sfatto il castello, levate le sanse, fece lavare con acqua bollente
    le bruscole nuove e risciacquare con acqua bollente le conche
    adoperate a raccogliere l’olio e il piatto e il boccale di latta e
    fece gettare via dall’inferno le morche, perché non vi rimanesse
    quell’odore d’olio cattivo.
    Vennero presto le olive belle, le olive della Lama, di
    Colli, del Logo e delle costiarelle intorno al paese; olive di
    piante in forza, vegete fra terreni molto pietrosi e bene esposti,
    belle olive grosse, liscie, lucide, che facevano una pasta
    rossastra, come certe viole macchiate di giardino, pasta sparsa
    di puntolini d’oro, dalle goccioline scorrevoli dell’olio
    spremuto.
    Il Pancioni, che faceva da garzone, andava fra una
    frantura e l’altra, alle case con le sacca e lo staio a prendere le
    olive; le caricava sul cavallo e le portava in una stanza
    intavolata adatta, dalla quale, dopo ripulite dalle foglie, si
    lasciavano cadere sul piatto della macina per mezzo d’una
    tromba di tela inchiodata alla bocchetta aperta del tavolato. La
    macina grande, di sasso vivo, era girata da un cavallo
    attaccato alla stanga. Le olive, cascando dalla tromba sul
    piatto, mentre si assettavano in giro con le mani, spargevano
    un piacevole odore amarognolo che sapeva lontanamente di
    riscaldato.
    Il cavallo mangiava intanto il pastone di semola e farina
    nella cassetta, stando disciolto, solo, in disparte, a un angolo
    del frantoio, dove si gettava la sansina strinta. Il frantoiano,
    mossa la macina, andava dietro al cavallo, dando a ogni giro
    con la pala di legno le olive e togliendola pasta dal piatto.
    Avviata la macinata, era concesso di fare qualcosa anche a noi
    ragazzi. Uno andava dietro al cavallo tenendosi con la mano
    alla stanga e toccandolo con una mazza di gelso, ogni tanto, se
    rallentava il passo e se non obbediva alla voce; l’altro si
    metteva ritto intirizzito in un canto, davanti al punto di presa
    delle olive e appena passata la stanga, veniva presto innanzi,
    dava la palata, presto, in modo che non gli rimanesse la pala
    sotto la macina e tornava ritto intirizzito al suo posto.
    Perché la pasta fosse ben fatta occorreva un’ora e un’ora
    e mezzo di lavoro: la macina girava piano, qualche oliva
    sgusciava sotto e Giobbe aveva l’abitudine di girarla due volte,
    per aver subito l’olio pulito, prima di rifare le sànsine, che
    davano olio di qualità inferiore. A noi altro lavoro non era
    concesso, se non quello di dare i primi buchi con la stanga
    piccola, girando l’argano col canapo, che aveva da una parte la
    cappia da agganciarsi ed era così grave, che, svolto un
    pochino,lasciava frullare le stecche dell’argano, senza girarlo
    con la mano. Si poteva però scendere con Giobbe nello
    schiaritoio, lo stanzino dove sgrondava l’olio dal gorello e
    dalla doccia della strettoia e dove veniva cappiato nelle larghe
    conche e poi travasato nei coppi di terra cotta verniciati al di
    dentro e nei coppi di bandone, chiusi da lucchetto. Là giù, alla
    luce di un lume a mano, si stava a vedere cappiare l’olio,
    imparandone il modo.
    Giobbe era maestro nell’arte, il più reputato frantoiano
    delle vicinanze. Quelli che avevano lavorato qualche anno
    sotto di lui, erano ricercati dai padroni di altri paesi. Egli poi
    godeva comune lode e fiducia per la sua onestà: rendeva
    sempre a ciascuno l’olio delle proprie olive, non lo barattava e
    non lo mescolava con altri e non rendeva olio di cotone, come
    certi furfantoni che si erano arricchiti male, così.
    Nel cappiare aveva una mano agile e bella a vedersi;
    toglieva dalla morca l’olio fino a una gocciola e quando,
    soddisfatto dell’opera sua, ne prendeva col piatto di latta e lo
    lasciava ricadere largamente dal sottile contorno, si vedeva
    contro alla luce un olio bianco, pulito, trasparente o giallo
    d’oro talvolta e limpido come l’ambra liquida.
    Del migliore, di questo, dava a chi veniva a fare la
    crogentina; di questo dava per la crogentina anche a noi
    ragazzi. Arrostivamo le lunghe e sottili fette del pane al
    fornello della caldaia, dove il bianco fuoco di sansina e di
    legno dolce, facevano brusta rossa odorosa; sulle fette del pane
    arrostito si fregavano i capi d’aglio mondato soltanto a mezzo
    e così le mettevamo a inzuppare nei piatti dell’olio,
    spargendole di sale fine. Avevano un sapore acutino e
    croccante, che ricreava e satollava lo stomaco.
    Venivano a fare la crogentina nelle ore di riposo,
    qualche volta per settimana, gli opranti che lavoravano al
    paese; venivano più spesso queste donnicciuole, che non
    avevano nulla, se non la calza, da fare e risparmiavano il
    companatico; barattavano due burlette e tornavano a casa con
    una bella caldanata di brace, di quella brace compatta che
    consuma lenta.
    La crogentina per noi era premio grande, perché ci
    pareva guadagno del nostro lavoro. Se ce lo concedevano,
    prendevamo parte ai lavori con vera passione d’uomini.
    Prima ancora dell’alba, nelle ore avanti giorno
    dell’inverno, in quelle ore buie, silenziose, nelle quali non si
    vede altro che raramente passare una lanterna accesa per le vie
    deserte, lanterna forse di mulattieri, che rientrano nelle stalle a
    governare i muli o a mettere i basti, dando una voce alle bestie
    giacenti sugli umidi patti, alle bestie che si alzano stirandosi,
    tentennando le bronze; forse di carbonai, che vanno a rivedere
    il fuoco, messo la sera nelle carbonaie della legna; forse di
    barrocciai viandanti, che tornano verso i sobborghi delle città
    lontane coi loro barrocci caricati la sera; o forse di qualche
    disgraziata donna che torna da vegliare il malato grave –
    prima ancora dell’alba, in quelle ore fra le quali non si sente
    che lo schioccare dell’acqua, che sgronda dalle grondaie senza
    doccia, sui lastricati, se piove, o l’abbaiare di un cane a un
    passo affrettato della strada;ore che si dormono tutte come di
    primo sonno, in inverno – noi mattinieri, riposati abbastanza,
    eravamo alzati già di quelle ore prima dell’alba, svegli, con gli
    occhi lucenti, per quanto rimasti senza lavare essendo ghiaccia
    l’acqua, – e mangiavamo la parte della nostra cena serbataci,
    aspettando inquieti se i frantoiani tardavano ad aprire il
    frantoio.
    Tre pilate di olive e le sansine da rifare, volevano tempo
    abbastanza e bisognava attaccare di levata molto sollecita.
    Qualche mattina la sveglia si faceva noi. Anzi, una volta
    che si era trattato di macinare quattro pilate di olive in un
    giorno, con una bestia sola, avuto da Giobbe, che era di buon
    umore, proprio noi l’incarico di fare la sveglia, si andò a letto
    di prima sera, avanti la cena consueta, avanti l’ora di notte.
    L’orologio di piazza suonava alla francese: batteva fino a sei
    colpi soltanto, alle sei quanto al mezzogiorno e alla
    mezzanotte. Svegliati dal suono dell’orologio, si contano
    cinque colpi; si aspetta la replica; se ne contano sei.
    ‘Ahimè, che ora! come? così tardi? le sei! Dormiglioni,
    bella figura davvero!’
    Per quanto ormai sfiduciati e rassegnati ad ogni beffa, ci
    vestimmo subito, con una vana speranza incompresa nel
    cuore. Non pensammo allora neppure che le calze erano di
    lana nostrale e che ci bucavano. Si accese il lume a mano e si
    scese giù senza svegliare nessuno, nemmeno la serva; si scese
    in punta di piedi, velando con la mano la luce del lume nel
    passare davanti alla porta delle altre camere.
    Aperto l’uscio d’ingresso, chiuso da paletti e stanga, si
    corse al frantoio: era sempre chiuso. Allegri allora di non
    essere stati vinti, si salirono in fretta a tasto le scale della casa
    di Giobbe e si bussò all’uscio col palmo della mano. Giobbe
    dormiva, che felicità! Essere stati i primi ad alzarci, senza che
    alcuno ci avesse svegliato! Demmo le voci di sveglia, bussando
    di nuovo all’uscio, ora coi tacchi delle scarpe, oltre che con la
    mano. Giobbe si destò.
    - Chi è? cosa volete a quest’ora?… E’ presto, è sempre
    presto!…
    - Levatevi, Giobbe, è tardi; sono suonate le sei; oggi ci
    son quattro franture!
    A sentir l’idea di quell’ora fra il dormiveglia, Giobbe
    saltò dal letto e venne ad aprire mezzo addormentato e
    svestito, con la papalina di maglia bianca in capo.
    Ma quando si affacciò e dette un’occhiata alle stelle, che
    cominciavano appena a calare dal cielo lontano, conobbe dalle
    stelle che l’ora era sempre di notte. Luccicavano bianche le
    stelle minute nel cielo, lontane, di un chiarore sottile che le
    circondava, simile a una piccola nube, ma lucida di
    trasparenze. Del rimanente fra l’ombra non era barlume di
    luce ed i fichi ed i mandorli e i gelsi dell’orto e gli olivi, non si
    distinguevano che come contorni più neri dell’ombra. Giobbe
    ci fece passare e accese col lume la frasca già preparata la sera,
    troncata sui nitidi alari. Poi si vestì della maglia, ma parve
    svogliato e più stanco. Alfine pensando che forse il dormire fa
    camminare l’ore più presto e che rincresce lasciare il calduccio
    del letto, si mosse, discese la scala. Nel tempo che metteva la
    chiave nella serratura, batté l’orologio di piazza e batté solo un
    tocco. Era l’una di notte e voltandosi indietro adirato, Giobbe
    ci disse alcune parole cattive; ma poi ci ricondusse in casa, oh
    in fondo certo con un sorrisetto nel cuore.
    Tanta era stata l’ansia del nostro svegliarsi per tempo…
    Fra le altre cose ci piaceva vedere accendere il lume
    grosso a tre becchi, sospeso alla trave per una funicella
    scorrevole sur una piccola carrucola mantenuta unta.
    Ciò di mattino.
    E il giorno nessuno di noi si muoveva mai dal frantoio.
    Non ci attiravano più le urlate che salivano di sotto la chiostra
    e venivano forse dalle stanze del Bussotti, dove i compagni
    nostri dovevano giuocare a buchetta, o dall’arco della stalla
    dei Gigelli, dove facevano alle spinte o al giuoco della
    bandiera. In quei momenti non ci attiravano più troppo
    neppure i giuochi. Pareva venuta l’ora di una nostra infantile
    impresa più seria.
    Chi si era provato a imitare il lavoro del frantoio? Gigi
    di Biagio, sì; ma aveva fatto ogni cosa di sabbio rosso, come le
    lumiere e le macchine e le carrozze con le ruote senza razzi; le
    olive però non si macinavano, rimanevano dentro la ruota
    intere, se non facevano guastare i congegni.
    Chi aveva pensato di trovare una macina di sasso
    veramente? Si era stati al Molino di Mezzo, vicino allo
    sdrucciolo delle lastre di Bufalaio, dov’era una macina vecchia
    d’un frantoio abbandonato; si era stati anche a vedere un’altra
    macina che lo scarpellino Masetto, lavorava nella sua cava di
    pietra dura alla Piaggia. Ma al vedere quelle moli di sasso, a
    sentire la durezza del sasso, che non cedeva alle punte dei
    chiodi grossi, cadeva ogni nostro proponimento. Prender parte
    al lavorìo dei frantoi veri, dunque. Tutto il giorno là, se
    volevano, intorno alle bruscole, intorno all’argano e ai ceppi,
    su nella stanza delle olive a rivoltolarle, perché non
    ammuffissero; a spalare la sansa che cascava dal monte e
    ingombrava. Dopo cena quasi sempre veniva gente a vegliare.
    Capitava Minega lo scemo, capitava la Teresina di Bastiano,
    abituata a venire al frantoio quando non si frangeva, avendoci
    bottega di legnaiuolo suo marito. Intanto che il castello delle
    bruscole, sotto i ceppi dello strettoio, si riposava e sgrondava
    olio a gocciole e a fili gialli sottili – si stava intorno a Minega
    perché contasse la sua novella. Minega, lo scemo, ne sapeva
    una; contava sempre la stessa alla maniera sua, che faceva
    ridere tanto.
    ‘Questo Flurindo andava a fa’ sempre pulizzia. Voleva
    accende’ la fumma e non aveva el fiammifero. E da quella via gli si
    aggrovigliolò un serpente al collo. Ora il tempo delle novelle passa
    presto, va costà alla tonda al ponte di Macallè. Il tempo delle novelle
    passa presto, ammazzarono tutti cignali, colombi e via. Il tempo delle
    novelle passa presto, arrivò a Marsiglia; il tempo delle novelle passa
    presto, arrivò a Marsiglia…’
    Così, con queste ultime parole, continuava fin tanto che
    ci si divertisse a sentirlo e non gli si dicesse: basta! Fra una
    frase e un’altra, senza finirla, faceva una osservazione sua, se
    gli cadeva sott’occhio qualcosa che lo impressionasse
    - Questa cos’è?
    - Una catena lustra, di diamanti.
    - Ah una catena di diamanti! Uh bella… eh…
    - Questo cos’è? questo cos’è?
    - Un canapo, una stanga di leccio…
    - O voi, mi date un paio di scarpe? l’ho tutte rotte…
    Fra una frase e un’altra, si lasciava allargare la bocca da
    qualche sbadiglio e finiva con le sue solite parole, quando
    pareva a noi;
    ‘Mangiarono e bevvero; a me niente mi dettero…
    - Come nulla?
    … mi dettero un panetto di pane e un fiasco di vino e io ne feci
    una panciata come un salacchino.’
    Altre volte in ore migliori, gli stavamo attorno
    costringendolo a raccontare i suoi amori con la Nena del
    Bocchi. Il disgraziato, per una di quelle ignote ragioni che
    muovono gli atti e i sentimenti di certi organismi e di certe
    coscienze discese in basso fino a commuovere di pietà altrui,
    pure l’estraneo – diceva d’essere innamorato di questa Nena,
    una buona ragazza, figliola di buona famiglia. Qualcuno lo
    aveva sentito, tornando nella sua catapecchia, lo aveva sentito
    parlare da sé e lo aveva veduto gestire come se veramente
    fosse stata davanti a lui la ragazza.
    - Nena, tieni; questo è il pane; questa è la minestra; via, metti
    la pasta; fai bollire il paiuolo; fai la polenda, chè ti voglio bene…
    I ragazzi gli urlavano dietro queste frasi, imitate con
    ogni bizzarria di voce. Egli si voltava a tratti, mostrando i
    denti, come certi cani di campagna, che passano con la coda
    fra le gambe e si rivoltano con un abbaio rabbioso ai cani del
    paese che li rincorrono dopo essersi raccolti insieme. Irritato,
    andava a rintanarsi nella sua stamberga, una stanza buia, in
    fondo al corridoio d’una casa disabitata, dove dormiva per
    terra fra i calcinacci del pavimento scempiato, e non usciva fin
    tanto che gli duravano i tozzi del pane raccolti nei giorni
    precedenti, bussando alle porte. Di uno scherzo tenne molto
    rancore anche a noi.
    Gli avevamo in frantoio mescolato dell’olio di ricino a
    quello di oliva, datogli per la crogentina. Aveva avuto dei
    disturbi; non era tornato a trovarci, non era tornato più
    all’elemosina a casa nostra in giorno di sabato, non aveva
    voluto accettare il pane che gli avevamo mandato da noi
    stessi. Venne soltanto l’ultimo pomeriggio della stagione.
    Rimaneva da stringere una frantura di sansine; ci doveva poco
    più tardi essere la maccheronata in frantoio. Arrivò che le
    donne scodellavano, nei vassoi tondi, i maccheroni tagliati a
    quadrucci, e li coprivano di salsa piccante e di formaggio
    grattato. Quell’odore di stracotto cucinato bene, che si sentiva
    di fuori dalla strada, ce lo riconciliò. Noi stessi, pentiti dello
    scherzo passato, sentivamo il bisogno di ricompensarlo con
    buone accoglienze. Giobbe lo fece sedere e fu il primo a
    colmargli una scodella di maccheroni.
    Ma più tardi, verso la fine del mangiare, mandata a
    mezzo la damigiana del vino, ricominciò l’allegria. Minega
    aveva mangiato a crepa pelle, con una voracità di bruto
    rimasto a lungo digiuno; aveva anche bevuto vino pretto,
    senz’acqua, e il vino già gli aveva dato alla testa. Non volle
    contar la novella, ma cominciò a parlare della sua povera
    Nena, che gli voleva bene, diceva. Nel brio, si tinse il viso di
    morca; noi gli appiccicammo allora sul viso e intorno al collo
    penne di gallina; si cominciò a dirgli che era bello, che stava
    bene, che pareva un signore, che doveva andare in quel modo
    a trovare la Nena. Gli atti di contentezza, il passeggiare
    rimpettito che faceva di qua e di là, quasi per prova, ci
    convinsero che ci sarebbe andato davvero.
    Pure, quando uscì non lo seguitammo. Si rimase in
    frantoio per attendere alla sistemazione degli utensili, che
    dovevano essere riposti. C’era in ognuno di noi una mesta
    passione di cui l’animo penava un poco. Giobbe ci aveva
    parlato della sua soddisfazione anche per la lavorazione di
    quell’anno; aveva lodato il nostro frantoio, la forza della
    madrevite, la bontà e la durezza della macina, la resistenza
    dell’argano e dei canapi, la docilità del cavallo. E noi eravamo
    molto soddisfatti del nostro piccolo orgoglio, di quelle cose
    che ci appartenevano e che non ce ne facevano invidiare altre
    ad altrui. Cosa c’importava se a Castagneto c’erano i frantoi a
    vapore? Se a quello del Moratti, a quello del Conte della
    Gherardesca, macinavano tante e tante franture di più e tutto
    andava a vapore? Nulla c’importava. Giobbe era il miglior
    frantoiano delle vicinanze; cappiava l’olio come nessuno
    sapeva; al nostro frantoio era difficile che succedessero
    disgrazie, e poi quando si davano gli ultimi buchi con
    l’argano, si vedeva, alla croce, chi aveva forza e chi aveva
    malizia.
    Nulla c’importava.
    Ai frantoi dei più ricchi, era proibito che entrassero le
    persone estranee. Al nostro, venivano con ogni libertà i vecchi,
    fino i mendicanti e i fanciulli e ognuno aveva un precetto e un
    consiglio saputo dalla sua gioventù o un piccolo gesto di
    bambino che dava allegrezza; venivano i disgraziati da tutti i
    paesi, che giravano il mondo e spesso non avevano il pane e si
    contentavano del fuoco da scaldarsi un momento o da
    asciugarsi i panni bagnati dalla pioggia.
    Il contatto cogli umili ci rendeva una pietà fraterna e
    una modestia cara, per le quali gli agi modesti di casa nostra,
    potevamo dividerli con lo sconosciuto che arrivava all’uscio
    non si sa di dove.
    Così chiudendo per l’ultima sera il frantoio, la pena era
    di più rincrescimenti: ci sembrava pure che a quella porta
    chiusa, sarebbero arrivati, nei seguenti giorni, mendicanti
    senza ricovero. La serratura, messavi dentro la chiave per
    chiudere, non voleva serrare. Le pioggie spinte dal vento
    avevano fatto ingrossare il legno. Da diversi giorni pioveva e
    la terra nei luoghi piani era tutta sott’acqua e minacciava frane
    d’argini in ogni parte esposta a cadere. Si uscì sotto una
    pioggia scrosciante, grossa come le funi. Poco dopo, mentre
    nello scrittoio assistevamo Giobbe che dava le consegne della
    lavorazione a nostro padre, fra lo scroscio fragoroso della
    pioggia che continuava, si sentì una romba sorda, come d’una
    frana. Calmata la pioggia bussarono all’uscio. Era franato il
    muro dell’Orto di sotto, sopra il lavatoio e l’abbeveratoio
    comunali. Nel buio, sotto le rade goccie di pioggia che
    cascavano ancora, molte lanterne giravano intorno alla frana.
    Quando arrivammo anche noi, spaventati, si udì una voce che
    si lamentava fioca dietro a un muricciuolo.
    Uno che si avvicinò con la lanterna e con la zappa per
    liberare il disgraziato, riconoscendolo, disse forte in modo che
    tutti s’intese:
    - Guà, anche questa volta ti è andata bene, Minega!

    http://digilander.libero.it/tigrino/Quaderni.htm

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