Adelina.
In Via Ferrer,in un vetusto palazzone, al primo piano, viveva una famiglia,tra le più antiche di Piombino. Il nonno di Adelina, con la moglie Armida era venuto nella piccola Città dal grossetano, dalle cascine disseminate in quella campagna altalenante che si snodava da Massa Marittima a Monterotondo. La loro era una storia di umile gente in cerca di un lavoro, attirata dalla nascente industria metallurgica. Angiolino, come lo chiamavano amichevolmente nella strada, aveva con il tempo, aperto uno “stallaggio”, a pochi metri da casa sua, fra via Spalato e via Costa. Lo stallaggio era un paradiso per tutti i ragazzini dei dintorni e anche per Adelina che passava molto tempo con il nonno. Un ambiente antico.Era una tipica stazione di posta per carrettieri, barrocciai, straccivendoli. Somari, muli e cavalli se ne stavano allineati alla greppia, in attesa di un meritato riposo o di essere ferrati. All’epoca Adelina era già una signorina. Aveva gli occhi azzurri molto dolci, la carnagione chiara con qualche rara efelide, i capelli biondi color miele soffici e ondulati, le mani agili e dinoccolate. Era una bella ragazza dal fisico slanciato, ma anche un po’ trascurata. I secondi anni venti in Italia e anche in quella cittadina, avevano purtroppo segnato l’avvento del fascismo, la restrizione delle libertà personali, del diritto di opinione, le discriminazioni razziali. Ci si avvicinava precipitosamente verso un tragico conflitto. Un periodo oscuro che avrebbe spento speranze, progetti e sogni. Nella casa di Via Ferrer la vita scorreva fra mille difficoltà a causa delle sempre più difficili condizioni economiche. Adelina aveva da tempo terminato le scuole elementari, e di questo si sentiva già orgogliosa, ma come accadeva spesso nelle famiglie di quell’epoca, avrebbe dovuto imparare un mestiere. Cominciò così a frequentare, con altre speranzose ragazzine, la scuola di taglio e cucito in casa della maestra Bellucci. Una vera autorità nel ramo. La sartoria era ricavata in una stanza del piano terra con una finestra chiusa da un intarsio di ferro battuto che dava direttamente sulla strada. Da lì i ragazzi quelli più spavaldi e sfacciati facevano la fila per guadagnarsi uno sguardo, un’occhiata furtiva, un bacio soffiato nel vento. Il primo amore poteva sbocciare anche così. Uno dei giovanottelli che faceva la spola a quella finestra, con giacchetto di pelle, bavero tirato su, alla guida di una motocicletta era un bel ragazzo che poi avrebbe militato nella mitica squadra del Piombino, come portiere. Assomigliava a Jean Gabin e era conteso da molte bimbette piombinesi. Questa era la vita in quegli anni. Gli orari di lavoro delle sartine erano rigidi, ma non vi erano alternative se si voleva diventare padrone del soppunto, del sopraffilo, degli occhielli, delle impunture e infine del taglio. Arrivavano tutte alla stessa ora, alla spicciolata, a piedi o su vecchie biciclette, vestite di abiti colorati di bordatino, con i calzini bianchi e i sandali con le suole di sughero, il sacchetto della merenda sotto il braccio. Si cantavano le canzonette dell’epoca mentre si infilzava un orlo, una manica raglà. La macchina da cucire Singer se ne stava in mezzo alla stanza come un simulacro. La potevano usare solo le più esperte. Intanto l’avventura bellica proseguiva e alla spavalderia iniziale intrisa di una tronfia retorica, subentrò l’agonia dei bombardamenti. Piombino non fu dimenticata dagli aerei alleati.Le sirene dell’allarme, poi l’oscuramento, e la ricerca di un rifugio. Cominciava sempre così. Quante volte Adelina si era precipitata al rifugio del castello con il cuore in gola, scalza per correre più veloce e guadagnare una presunta sicurezza. Subito dopo cominciava il rimbombo delle forti esplosioni, il rumore dei crolli, l’attività frenetica dei soccorritori. Nel rifugio, al buio, ci si guardava spauriti, cercando i propri familiari con lo sguardo, mentre la polvere si diffondeva dalle volte della galleria rendendo irrespirabile l’aria. Sulle pareti del rifugio, qua e là, scritte colossali inneggianti alla vittoria e alla grandezza del regime fascista, avrebbero dovuto rincuorare i poveracci. Erano momenti di intensa angoscia. Con il rombo delle eliche che si affievoliva perdendosi nell’alta quota diventando solo un lontano brontolio ritornava, subitanea, un’effimera serenità. In quei giorni la situazione alimentare si stava facendo sempre più critica. Chi riusciva a procurarsi qualcosa lo faceva contrabbandando le tessere o al mercato nero se disponeva di denaro sufficiente. Le discriminazioni razziali e la povertà rendevano impossibile l’una e l’altra possibilità. Per sopravvivere occorreva ingegnarsi e un grande spirito di sacrificio. Il padre di Adelina, Corrado, era un maestro tappezziere molto richiesto per la sua abilità in tempo di pace. Ma ora non riusciva più a lavorare e una dignitosa miseria regnava nella famiglia. Rimaneva una remota possibilità sfruttare un’antica amicizia con dei cittadini di Monteverdi Marittimo, persone generose che li avrebbero aiutati. Tuttavia occorreva recarsi in quel piccolo paese, abbarbicato tenacemente su di un poggio; ma con quali mezzi? I chilometri da percorrere erano una cinquantina’erano solo due modi disponibili. A piedi o in bicicletta. E comunque si trattava sempre di un’impresa nella quale si poteva rischiare la pelle. La ragazzina sapeva dove andare. Aveva sentito, di notte, la madre e il padre parlarsi, rincuorarsi a vicenda, trasmettersi i profondi pensieri che traversavano la loro anima, esplicitarsi le paure per il futuro dei figli, la fievole speranza che questa aberrazione finisse presto, la necessità di rischiare per trovare un po’ di cibo. La decisione era già presa. Adelina origliando finse di dormire fino alle 4,30 del mattino. Poi, messa una mezza fetta di pane nero nella tasca del grembiule, avvolgendosi in uno scialle di lana, era già in fondo al portone inforcando una vecchia bicicletta. Una di quelle senza camere d’aria, con le ruote piene che martirizzavano la schiena. Nel buio che prelude l’alba, sotto la fievole e tremula luce di qualche rara lampada, percorre di volata Via Ferrer, involandosi verso la strada provinciale, piena di strappi e a tratti disselciata, che costeggiava i muri crollati del perimetro industriale. Pedala vigorosamente, pestando sui pedali sobbalzando sul sellino a ogni buca. L’aria fresca dell’alba che si preannuncia, la sferza sul volto scompigliandogli i bei capelli biondi ma infondendogli l’energia necessaria. Un breve tratto di discesa la separa dalla logora e stretta statale che fiancheggia l’argine incolto del Cornia, punteggiato di folti canneggiolai. I binari della ferrovia sono sempre più vicini, la stazione si intravede sbirciando a ponente con la coda dell’occhio. La ragazzina sta ansimando, un po’ di fatica comincia a farsi sentire, ma occorre traversare la strada ferrata prima che compaia all’orizzonte, avido e spietato il lattaiolo della prima mattina, il caccia che falciando l’aria a bassa quota ingoia la scia parallela e infinita di quei binari e mitraglia tutto e tutti. La fossa campereccia in cui declina la ferrovia è già raggiunta. Qualche breve attimo per scrutare sulla linea dell’orizzonte a nord e a sud. Da dove potrà comparire il predatore? Non resta che riprendere fiato e poi decidersi. In fin dei conti sono solo pochi metri e con un po’ di fortuna…. La bici è issata a fatica sul piano dei binari, la testa bionda della ragazzina compare fra il verde dell’erba per un’ultima furtiva occhiata. Non si è mai troppo sicuri pensa fra sé. Poi, d’un tratto, si trova dalla parte opposta come se nulla fosse. Un flash, un lunghissimo flash, che ha abbagliato il tempo fermandolo. Il più è fatto. Gli ultimi metri per allontanarsi sono rincorsi più che percorsi, proprio mentre dalla direzione di Livorno, il rumore sempre più intenso di un’elica che mulina nell’aria, si fa vivo. E’l’aereo lattaiolo che sfreccia sui binari, padrone incontrastato di quel lungo segmento di cielo azzurro, che cerca bieco e spietato la preda mattutina. Adelina è ormai al riparo della strada che si snoda in mezzo alla campagna e per la quale il veloce predatore non dimostra alcun interesse. Poi così come era apparso senza avviso il velivolo compie una virata alzandosi di quota e mostrando il suo agile profilo si perde fra i banchi di nuvole bianche diretto chissà dove. La meta non è vicina ma il pericolo maggiore è passato. Mano a mano che traversa il lungo serpente di asfalto rattoppato, interrotto da tratti sterrati, davanti agli occhi della ragazza scorre il verde di una campagna aspra, in parziale stato di abbandono specie in prossimità della carreggiata. Più a dentro nelle cascine visibili a occhio nudo ferve la vita delle famiglie contadine che danno riparo agli sfollati. A tanti, troppi, sfollati rimasti senza nulla ma miracolati dalla solidarietà umana. Il sole intanto si è alzato in alto e riscalda le membra doloranti dell’improvvisata ciclista. Una brezza allegra di maestrale la spinge da tergo infondendole coraggio. Poi la meta agognata si fa viva agli occhi della ragazza proprio mentre ella rialza la testa dal manubrio in un erto strappo di ascesa. E’ il paesetto di Monteverdi dove troverà una casa amica, il calore umano di un antico vincolo di riconoscenza, gli attimi per un breve riposo e qualcosa da portare a casa alla famiglia, perché quello era lo scopo e il solo obiettivo: trovare qualcosa da mangiare per i suoi familiari. Nella casa al primo piano, attorno alla cucina in muratura, il fuoco alimentato da palle di carta e da qualche pugno di carbonella sbuffa verso la cappa annerita diffondendo un debole calore. Attorno a quella fiamma la famiglia è in trepida attesa. Hanno letto il succinto biglietto della figlia. Sulla credenza la sveglia scandisce il tempo con il suo inesorabile tic tac. Il tempo passa e l’ansia aumenta. La madre raccomanda la figlia a Dio. L’imbrunire già si preannuncia tra squarci di nubi violacee, le ultime rondini si librano nel crepuscolo scomparendo e lasciando libero il cielo ai piccoli uccelli notturni. Poi, un breve scalpiccio di piedi che salgono si ode nell’umido andito del portone. Ancora poche scale e poi un toc alla porta in ferro della casa. E’ lei la ragazzina dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, eroina per un giorno.
Franco Micheletti