Dai “Quaderni del Circolo Emilio Agostini di Sassetta” una testimonianza su Don Carlo.
Dedichiamo oggi questo fascicolo dei “Quaderni” all’opera
“L’Arciprete e la Dottora”, racconto inedito opera di Vera
Morgantini: memoria autobiografica in cui l’autrice, moglie del
medico condotto di Sassetta, narra del suo primo incontro e della
successiva amicizia con Don Carlo Bartolozzi, la cui figura ed il cui
ricordo tuttora vivissimi ne fanno un personaggio quasi mitico,
ricordato ed amato da tutti quanti ebbero modo di conoscerlo, ed
anche da chi lo ha conosciuto solo attraverso i ricordi altrui.
Gli infiniti aneddoti che di lui si narrano, alcuni dei quali sono
qui riportati anche dalla Morgantini, sono parte essenziale della
storia e della leggenda di Sassetta, dal manganello dei fascisti al
peperoncino del frate, dal mestolo della perpetua alle bestemmie che
“quando ci vogliono, ci vogliono”.
Contiamo che questa pubblicazione, anche per il suo valore
evocativo oltre che per quello letterario (questo potra’ essere
giudicato da altri, più adatti di noi), sarà, ancora una volta, ben
accolta dai sassetani, e darà a tutti modo di rivivere piacevoli ricordi,
personali o familiari: particolarmente a coloro che furono “battezzati
a brodo di castagne secche”, come si dice usasse Don Carlo invece
dell’acqua santa.
Giuseppe Milianti
I personaggi di cui mi accingo a parlare hanno in comune due
grosse qualità: la bontà e la generosità.
Don Carlo, nato a Monteverdi Marittimo nel 1884, quando la
“Dottora” giunse a Sassetta era parroco del Paese da molti anni.
Aveva visto nascere nonni, padri, figli; per tutti aveva un
motto, un consiglio o un rimprovero.
Per quello che ho sentito raccontare, le gesta di Don Carlo non
erano poi dissimili da quelle del Don Camillo del Guareschi.
E si sa, quando un personaggio è famoso, ha sempre due popoli:
uno che lo esalta, l’altro che grida “crucifige”.
Per quante se ne siano dette di Don Carlo, la verità è una: nato
da buona famiglia e con cospicuo patrimonio, gli ultimi giorni della
sua vita è vissuto di carità, perché aveva dato tutto il suo, ai
bisognosi.
La mensa di Don Carlo era sempre arricchita della presenza di
qualche povero.
Vera, quando giunse a Sassetta,era una ragazzetta non ancora
maggiorenne, buona, dolce e bella, che seppe con la sua spontaneità,
conquistare il cuore dei rudi sassetani.
Così come si vede dal racconto, fra Don Carlo e Vera sbocciò
una sincera amicizia; si può dire che Vera sia stata l’ultimo raggio di
sole che ha illuminato la vita di questo strambo prete, ormai stanco,
ammalato e alla fine dei suoi giorni.
Con il racconto di Vera si dà inizio alle avventure di Don
Carlo.
Dunque, “C’era una volta un prete … ”
Marta Bartolini
L’ARCIPRETE E LA DOTTORA
Una strada lunga, dissestata e piena di curve ci aspettava
in quell’ancora caldo mattino di Settembre per raggiungere
Sassetta, un piccolo paese dell’entroterra livornese. Mio padre,
alla guida con accanto sua moglie era raggiante di portarmi al
pranzo che si teneva nella vecchia Canonica, in mio onore e
per festeggiare quello che fra una settimana sarebbe stato il
mio matrimonio.
Fra un mal di stomaco e l’altro, arrivammo finalmente
nella piazzetta del paese, dove era situata la casa del prete;
Don Carlo, vecchio parroco di quella piccola comunità, ci
aspettava ansioso, sfoggiando per l’occasione una tonaca quasi
pulita, con l’immancabile fazzoletto al collo. Grande, robusto,
un po’ strabico e con il suo mozzicone di sigaro spento in
bocca, ci accolse con un : “finalmente!”.Aveva fame.
Con lui c’era il vecchio medico condotto, un simpatico
ebreo quasi sempre reso allegro dal vino, vestito con abiti non
troppo puliti, i pantaloni tenuti stretti in fondo da due mollette
per i panni, perché andando sempre in bicicletta temeva di
sporcarli ancora di più o di cadere, con a tracolla una borsa
lasciatagli dagli americani e che conteneva quelli che chiamava
i suoi attrezzi da lavoro. Simpatico ed un po’ burbero al tempo
stesso, era diventato un personaggio caratteristico ed amato
dai suoi assistiti.
Un piccolo corridoio esterno coperto da un berceau e
costeggiato da piante curate dalla perpetua, ci condusse in
canonica. Indescrivibile lo studio dell’Arciprete: libri, libri,
ricordi, mozziconi di sigaro, e soprattutto tanta, tanta polvere;
un manganello attaccato al vecchio lampadario scendeva dal
soffitto, a testimoniare quel giorno che Don Carlo passò sul
campanile della Chiesa, forse in compagnia di un fiasco di
vino, per evitare i fascisti che lo cercavano per fargli pagare
l’essere, lui, di idee contrarie.
Arrivammo nella grande cucina dove, ad un tavolo
apparecchiato per l’occasione prendevano già posto l’ufficiale
postale, suo fratello, l’esattore delle tasse, il medico ed altre,
diciamo, persone importanti, ed ognuno aveva al suo posto un
fiore, il mio naturalmente bianco.
Un pranzo che non finiva mai, di quei pranzi che solo i
Parroci di campagna di allora sapevano offrire e preparare,
allegria e sguardi teneri fra me ed il mio futuro sposo.
Dimenticavo di presentarlo, lui era il nuovo medico interino,
perché l’attuale medico condotto, dopo tanti anni di servizio, si
avviava alla fine della carriera. Giovane, educato ed anche
bravo malgrado la poca esperienza, era subito entrato nelle
simpatie del vecchio prete e, anche se le sue idee religiose non
collimavano poi tanto con quelle di Don Carlo, era stato da lui
ospitato, fino al giorno delle nozze.
E le nozze avvennero in una piovosa mattina di
settembre, senza sfarzo, e partimmo subito per la nostra breve
luna di miele. Al ritorno ci aspettava Sassetta con le sue poche
lucine, avvolta in un buio già invernale, a quell’ora ancora più
silenziosa, e raggiungemmo quello che chiamavamo il nostro
appartamento, ricavato nella soffitta di una grande villa sul
Poggio, da dove si vedeva tutta la vallata che mi apparve
abbandonata e triste.
Cominciò per me quasi un calvario, dovetti adattarmi a
tante cose a cui non ero abituata, all’acqua che non esisteva,
alla solitudine interrotta solo ogni tanto da un contadino che
aveva bisogno del medico. Passavo le giornate con il ricordo
dei familiari lontani, delle amiche che avevo lasciato,
ripensavo alle nostre passeggiate serali per il corso della nostra
piccola città, piccola città che mi mancava tanto.
L’unica compagnia, di quei primi giorni da sposina era
quella di Jek, un setter nero che avevo tanto desiderato e che
avevo trovato in casa ad aspettarmi; ma anche lui si stancò
presto di quella solitudine, e scoprii che correva spesso in
paese, in casa del Prete, anche perché lì trovava bocconcini più
buoni. La mia cucina non andava nemmeno al cane!
Fu così che, per riportare Jek a casa e cercarlo, cominciai
anch’io a frequentare la tavola di Don Carlo. Io non sapevo
rigirarmi fra i fornelli, e gli stomacuzzi che dopo un mese
vennero a farmi compagnia, per l’attesa di mia figlia, mi
rendevano il compito ancora più pesante. Comunque, il mio
stato fu utile al nostro Prete, perché si aggregava a noi quando
andavamo a fare le visite in campagna, e sfruttava il mio
pancino dicendo ai poveri contadini che la sposina aveva la
voglia del pane casalingo, delle uova fresche, di un buon pollo:
si facevano in quattro per evitare le mie eventuali “voglie”, e
così tutte le regalie obbligate finivano in canonica e sulla
tavola di Don Carlo, visibilmente soddisfatto. Non so come
facevo ad adattarmi a quella cucina non proprio pulita, ma
tutto era tanto buono, sapeva di genuino, di campagna, e
questo rendeva molto più accettabile la mia gravidanza e mi
ridava la voglia di mangiare.
La Chiesa di Sassetta era povera, ma a quella tavola c’era
posto per tutti: oltre che per me, già soprannominata la
Jecchina per via del cane, anche per tutti i poveri che
passavano, e per ognuno c’era un piatto di minestra calda che
Don Carlo, con cento lire di ripulitura di banco di macelleria,
sapeva rendere gustosissima. Ci trovavi cose strane, una volta
addirittura gli occhiali del prete che non trovava più e che gli
ci erano caduti dentro mentre cucinava: furono ripescati tutti
unti e cotti, specialmente il pezzo di spago che sostituiva una
stanghetta rotta. Ma chissà perché, era tutto buono
ugualmente, anzi migliore: o forse, eravamo noi di bocca
buona!; ed io, con il mio pancino che cresceva piano piano,
gustavo sempre di più quella cucina.
Non erano molto ben visti in Canonica i frati da cerca,
perché, a detta di Don Carlo, mangiavano un po’ troppo: ma di
questo lui si vendicava sempre, e male andò una volta ad un
povero frate che gli dimezzò un dolce che era custodito
gelosamente nella moscaiola della buia cucina. Togliere al
nostro Prete tanta parte di quel dolce che gli era stato regalato
fu un vero delitto, e lui ben si vendicò strofinando la carta
igienica con del peperoncino rosso. Il povero frate fu visto
scendere gli scalini che dal piano superiore portavano fuori
non con le gambe ma con il fondo schiena, per trovare un po’
di refrigerio momentaneo in quel freddo marmo.
Presi così l’abitudine di scendere la mattina in paese, per
fermarmi nella piccola piazzetta con Don Carlo il quale,
masticando il suo sigaro, mi dava ragguagli spesso un po’
maligni su ogni passante; le donne non erano certamente
risparmiate, a cominciare da me stessa; criticava i miei
pantaloni, allora un po’ azzardati, e la mia, a suo dire,
magrezza: grassezza fa bellezza, mi diceva, e che così conciata
poi sembravo un vero muratore e non certo la “dottora”, e che
le mie poche forme non facevano certo venire l’acquolina in
bocca. Le battute spiritose ed a volte un po’ spinte erano
irripetibili, ed io con l’ingenuità dei miei vent’anni mi stupivo
molto e cercavo di riprenderlo dicendo “ma Don Carlino!”; per
lui però c’era sempre pronta una scusa ed una spiegazione a
tutto. Mi mostrava la vecchia fonte dove tanti anni addietro,
per lui giovane Pretino appena arrivato, le donne del paese si
prendevano a broccate per gelosia, e lui divertito ed
imperterrito fingeva di non vedere la ridicola scena… me lo
immaginavo davvero!
Nacque mia figlia in una calda notte di luglio, e mio
marito venne a trovarmi con l’immancabile compagnia di Don
Carlo, il quale, dopo i complimenti ed i rallegramenti del caso,
cominciò a smaniare dicendo che la condotta era rimasta sola e
che dovevano rientrare subito. Fu poco dopo visto a
Castiglione della Pescaia, con aria molto soddisfatta davanti
ad una fumante zuppa di pesce, subito riconosciuto anche se
aveva tolto la tonaca. Quella era la condotta sola che per
l’occasione, per l’Arciprete molto importante, non poteva
aspettare!
Il mio affetto per Don Carlo aumentava giorno per
giorno, lo sentivo come un padre, un compagno, e lui, con le
sue uscite, i suoi racconti, mi faceva dimenticare la mia
solitudine, i rimpianti, la voglia di evadere, vedere gente,
comunicare. Avevo fatto anche delle care amicizie, i paesani
tutti, i bambini, ed ero felice quando arrivavano le padrone di
casa che non sempre abitavano alla villa, amavo tutti. Ma il
compagno più caro era lui, il Prete, lui che mi rinfacciava di
lamentarmi e che non sopportava che la sposina venuta dalla
città si desse tante arie e che ce l’avesse su con quel piccolo
paese. La sera spesso aspettavo il ritorno di mio marito in
canonica, ed era lui, Don Carlo, a pregarmi spesso di restare
perché di lì a poco sarebbe tornata la Rosina ed avrebbero
certamente litigato. Rosina, la perpetua, molto più giovane di
lui, tornava a sera con la sua ciuca dalla campagna, stanca, e
cominciava a prendersela con il povero prete, perché
pretendeva sempre cose nuove per la vecchia cucina, ma il suo
malumore era frutto della stanchezza e di quel po’ di vino in
più che a volte buttava giù, fra una fascina e l’altra.
Nulla le andava bene, brontolava per un nonnulla, e però
a volte, devo dire, con buona ragione: come quando trovava le
sue piante tutte afflosciate perché Don Carlo fra le tante, aveva
la cattiva abitudine di annaffiarle naturalmente, per la pigrizia
di salire un po’ di scale e raggiungere il gabinetto. Cenavano
insieme, lui con caffellatte ordinatogli come dieta dal giovane
medico, il quale si raccomandava di non bere vino perché era
già malmesso di salute, ed anche molto grosso; finivano tutti e
due con la faccia appoggiata sulle braccia e sulla grande tavola
di marmo, nella luce fioca del fuoco che si andava spengendo
lentamente, ciascuno con il proprio bicchiere di vino. La
perpetua brontolava il suo prete perché non doveva bere, e lui
le rispondeva che, dopo aver dato retta al dottorino cenando a
caffellatte, poteva ben concedersi un bicchiere di vino.
Don Carlo a volte veniva a trovarmi a casa, arrivava
sudato per la lunga salita e per i novanta gradini che doveva
salire per raggiungere l’appartamento soffitta. Per prima cosa,
fra un respirone e l’altro, andava diritto alla bottiglia del
profumo, ne riempiva il suo cappello e se lo rinfilava in testa
bagnandosi tutto e per fortuna improfumando le trentatré
patacche (gliene contavo e tenevo sotto controllo) che
spiccavano su la sua tonaca, malconcia e sprovvista anche di
tanti bottoni. Lo sgridavo per questo e tanto feci che un giorno
l’accompagnai ad Antignano a farne una nuova, e da allora,
quando andavamo fuori dal paese (tutte le occasioni per noi
erano buone) si vestiva bene, metteva la fascia viola che
scendeva dal cappello e che poteva ecclesiasticamente portare,
e pure il davantino sempre viola che per l’occasione sostituiva
il logoro fazzoletto avana a quadrettini che portava sempre al
collo; gli conferiva, tutto questo, un’aria importante.
Così doveva uscire con me, e non mancavano allora i
commenti dei vari passanti, a vedere una giovane signora a
spasso con un prete; ma le risposte di Don Carlo erano sempre
pronte, a volte irripetibili. A lui importava solo venire a
Livorno, non certo per rivedere la città o i Quattro Mori o il
porto, ma per comprare le ceche, che poi ogni volta faceva
immancabilmente scappare per la macchina: diventava una
vera caccia il riprenderle, scivolose e piccole, per rimetterle nel
sacchetto, ma lui si rimboccava le maniche e con le sue grandi
mani riusciva a tenerle a bada. Ricordando le sue mani, ancor
oggi mi domando come potesse aver fatto ad aiutare a far
venire al mondo diversi bambini, perché, in mancanza del
medico che spesso non si trovava, si improvvisava levatrice,
infermiere, curava le ferite, ma ahimè non troppo le anime. Era
però sempre pronto e vicino a chi per l’ultima volta lo
chiamava al suo capezzale, credenti o meno in quel momento
per tutti era il più caro amico, e tutti, anche i comunisti si
sposavano davanti a lui anche se non la pensavano
esattamente come la nostra religione richiede.
Quando c’erano i matrimoni ci mettevamo in società, io
addobbavo la chiesa a seconda delle esigenze degli sposi, e
suonavo l’harmonium, a volte accompagnata dal macellaio del
paese che suonava il violino. Far funzionare i pedali del
vecchio organo era una vera impresa, e, tra una pedalata e
l’altra cercavo di tirar fuori marce nuziali, Ave Maria ed altre
musiche che per fortuna nessuno riusciva a capire se erano
suonate a dovere od alla mia maniera; comunque il tutto
riusciva abbastanza suggestivo, e le mie pedalate sonore erano
soggette ad essere più o meno prolungate a seconda delle
indicazioni del Prete, che mi diceva di farla breve se gli sposi
erano comunisti, se invece si avvicinavano al grande passo con
più fedeltà e soprattutto con più quattrini la funzione andava
avanti solennemente. Più volte, tutta presa dalle mie melodie
per la verità piuttosto stonate, con accanto mia figlia piccolina
che si commuoveva anche perché ancora non poteva capire
che cosa stesse combinando sua madre, non sentivo il segnale
che Don Carlo mi dava perché la smettessi; allora lui, un po’
infuriato, apriva l’abside e mi urlava: “bimba! Credo!” e questo
voleva dire che per un po’ dovevi stare zitta.
I suoi Vangeli erano veramente grandi, perché parlava
chiaro, forse anche troppo, ed era capito da tutti, specialmente
da me, perché dall’altare si rivolgeva spesso alla sposina
venuta dalla città che non voleva stare a Sassetta, facendo così
rivolgere su di me gli sguardi di tutti i presenti, creandomi un
grande imbarazzo.
A volte non trovava i suoi “bastardi” (così chiamava i
ragazzini che servivano messa) ed allora avevo imparato a
suonare le campane: finendo, la prima volta, in alto, attaccata
alla fune, fra le risate di Don Carlo che, imperterrito, aveva
aspettato solo questo.
Mi chiamava “brutta”, dicendomi che fino all’ultimo mi
avrebbe dato questo appellativo, mi brontolava se mi vedeva
un po’ scollata, tanto per farsi sentire, ma poi all’orecchio mi
sussurrava “brava, chi non mostra non vende”, e questo era parte
del suo modo di trovare per ogni cosa una scusa pronta: come
quel giorno che, entrando in canonica, lo sentii urlare
imprecazioni e parolacce. Si era allagata parte della casa
parrocchiale, e Don Carlo, scalzo, con i pantaloni a mezza
gamba, il suo mezzo sigaro spento in bocca, cercava con degli
stracci e soprattutto con le parole non certo degne di un
prelato, di asciugare il pavimento. Aiutandolo,, lo sgridai per il
suo comportamento, ma mi zittì dicendomi “bimba, quando ce
vò, ce vò” e continuò imperterrito la sua opera, mandando
sempre le stesse imprecazioni.
Dopo diversi anni, con mio marito abbandonammo
Sassetta per una condotta più grande (la carriera avanzava!)
con gioia mia e disappunto di Don Carlo, e di mia figlia,
costretta ad abbandonare la campagna, la libertà e le svariate
bestioline che la seguivano ovunque. Le visite del caro prete si
fecero allora sempre più rare, gli anni erano passati ed il suo
fisico, indebolito anche dai troppi stravizi, cominciava a
reagire male, il suo organismo era ormai, purtroppo, stanco e
vecchio.
Una mattina, una donnetta del paese mi avvertì che al sor
Arciprete gli era preso uno “stranguglione”; questo vocabolo
era nuovo per me e lì per lì non lo capii, ma la notizia del suo
ricovero urgente in ospedale mi rese consapevole di quello che
stava succedendo. Una brutta malattia l’aveva costretto a cure
drastiche e diete ben più pesanti, i l caro mangione Parroco. In
ospedale, anche se sofferente, scherzava sempre e con tutti, e
quando gli facevo notare l’accaduto mi riprendeva dicendomi
“si, brutta, ho bevuto il vino ed ora…. faccio acqua” alludendo al
cannellino che dalla sua grande pancia gettava del liquido.
Povero Don Carlino, tanto grande in quel letto per lui
piccolo, con i suoi calzini viola confezionati per la triste
occasione da una gentile signora che spuntavano dalle
lenzuola!
Passarono diversi mesi, fino a quel giorno che fui
chiamata a Sassetta, perché stava veramente male. Le suore,
che lo assistevano, mi videro arrivare, e, conoscendo la nostra
grande amicizia gli sussurrarono “sor Arciprete, guardi chi c’è,
L’Arciprete e la Dottora
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vedrà che adesso si sentirà meglio”. Apri i suoi occhioni velati di
tristezza, mi sorrise, e con un filo di voce mi disse “grazie
brutta”. Fu veramente l’ultima sua parola, si addormentò e
purtroppo per sempre.
Non ho mai avuto sogni premonitori, ma quella notte lo
sognai, e mi disse che nella stanza del Vescovo (camera dove
pochi potevano entrare) “nell’ultimo cassetto c’è il vestito che per
l’ultima volta dovrò indossare”. Le suore erano disperate perché
non lo trovavano, quel vestito, ed io le condussi lassù, in
quella fredda stanza abbandonata, dove veramente, in un
grande cassetto, stavano distesi i paramenti che servivano a lui
per il suo grande viaggio. Per tutti i paesani fu un grande
dolore, per me fu la perdita di un caro amico, del mio
consigliere, un grande e sincero appoggio.
Ti ho voluto bene, Don Carlo!
Caro dolce amico, a distanza di tanti anni sei rimasto in
me come un grande padre e, con il peso dei miei anni, con
tante sofferenze passate, con in cuore tanta tristezza e
malinconia, ti ricordo ancora. Sor Arciprete, compagno della
mia gioventù, la “brutta Jecchina” non ti dimenticherà mai e ti
porterà sempre nel suo ormai stanco cuore.
La Dottora