San Valfredo e i topi.
Un miracolo del santo di Monteverdi, tra storia e leggenda.
Monteverdi nel 1781 era feudo dei marchesi Incontri e gli abitanti quando si contavano erano circa 400. La memoria della potenza spirituale e temporale della Badia, passata qualche secolo prima all’ordine dei monaci di Vallombrosa, veniva loro quotidianamente rinfrescata dai maestosi muri che, abbandonati e non ancora vinti dalle offese del tempo, svettavano in cima al poggio posto a mezzogiorno. Piastricci, così si chiamavano le attuali Piazzalette, era l’antica porta sud del Castello che si apriva sulla strada per la Badia, dove riposavano le spoglie mortali di San Valfredo e di altri beati, meta di pellegrini imploranti grazie e guarigioni, e immetteva anche sulla vecchia via che portava a Canneto passando per S. Martino dove, in passato, i viandanti arrivati tardi in vista delle mura del castello di Monteverdi trovavano rifugio sicuro tra le mura della diruta chiesa per la notte.
Erano dimenticati i tempi in cui a buio le porte venivano chiuse e, secondo il turno, gli uomini vi facevano guardia armata; ora le due porte – l’altra Indamonte portava a nord alla antica pieve di S.Giovanni – erano sempre aperte al traffico dei pochi che si avventuravano su quelle vie adatte ai muli e ai pedoni. Le guerre erano dimenticate e dal nemico estero ed esterno si era passati alla guerra casalinga di emancipazione dal potere abbaziale condotta con le armi delle carte bollate, meno letali di quelle tradizionali ma altrettanto dispendiose per le povere tasche dei capifamiglia e le casse del neonato Comune. Le liti e le suppliche, inerenti i contratti e l’uso delle terre, venivano portate al cospetto del Granduca di Toscana, mentre le guardie e gli agenti dei padri di Vallombrosa denunciavano come criminali diverse persone di Monteverdi.
Possiamo dire che ci si tassava, se non proprio volentieri, almeno fiduciosi di averne un ritorno qualora la reale giustizia avesse riconosciuto i diritti dei monteverdini. Queste liti legali facevano grattare il capo, ma in cima alle preoccupazioni degli uomini, e ne parlassero o meno con le mogli anche sulle loro spalle ne gravava il peso, vi era la salute: questo sì per la famiglia un vero bene, prezioso e labile. Era terminata l’ultima epidemia di vaiolo, solo qualche caso sporadico riappariva spingendo i devoti alla cura degli altari e delle loro anime, e tutti al pagamento delle decime arretrate dovute al pievano, le cui entrate misuravano anche il benessere delle famiglie . Anche la campagna dava pensieri, le stagioni non erano più come una volta, le piogge sembravano aver scelto altre terre cui portare il loro contributo celeste di fecondità.
Questa la situazione del castello quando la scena fu attraversata da furtivi e silenziosi passi di un imprevisto attore: il topo. Nel corso dei secoli era sempre stato fedele compagno dell’uomo, lui non il cane, quest’ultimo arrivato tardi ma abile a conquistarne le simpatie, lui aveva costruito la sua tana e il suo nido vicino, sopra, sotto e dentro la capanna e poi la casa dell’uomo, con lui divideva il cibo e il tetto. Questo scomodo coinquilino aveva in più cattiva fama, alcuni dicevano portasse malattie pericolose.
Dapprima nessuno si accorse che tutti i nidi erano pieni e lo erano anche le femmine giovani e adulte, poi qualcuno notò che il traffico notturno nelle case era aumentato e il rosicchiare divenne fastidioso; nel giro di qualche settimana fu necessario riparare le dispense e appendere tutti i cibi. Le trappole ogni mattina consegnavano il loro ospite, ma niente sembrava poter fermare i topi.
Ce ne erano di tutte le dimensioni e varietà, topi, topini di campagna, toporagni, ghiri e i temibili ratti, quest’ultimi rappresentavano un vero flagello per i pulcini, le uova, gli agnelli e non indietreggiavano nemmeno davanti ai neonati. Di un ratto in particolare circolava voce fosse grande quasi come un gatto e se si contava anche la coda lo superava in grandezza, era scuro quasi nero, veloce e feroce, non temeva neppure i cani che aspettava fermo, ritto sulla coda e la bocca spalancata in un grido acuto ma possente; suo era il territorio intorno a S.Martino: alla vicina fonte aveva spaventato molte donne che ormai allungavano la strada e prendevano altrove l’acqua da bere, rinunciando a malincuore a quell’acqua buona e leggera, un vero dono divino, cui dava il nome di Fonte Leggiera. Questa a differenza delle altre vicine al castello non era carica di tartaro e quando poco tempo prima era venuto in visita – ma al popolo era sembrato una ispezione – l’illustre cattedratico di Pisa, quel botanico a nome Giovanni dei Targioni Tozzetti, non gli dissero, forse per timore o gelosia del suo immenso sapere, di questa fonte e delle sue acque.
Nelle sue relazioni lo studioso scrisse che a Monteverdi le acque sono poco buone, cariche di tartaro. Il pievano della chiesa dedicata a S. Andrea apostolo del Castello di Monteverdi, don Giovanni Batista Gamberucci, ebbe una copia di quanto scritto dallo studioso su Monteverdi grazie ai buoni contatti di un frate agostiniano – il Cesaretti che anche di nome, segno del destino, faceva Agostino – e parlandone ai suoi parrocchiani e rispondendo a quanti gli chiedevano cosa fosse questo tartaro diceva esser la parte più profonda dell’inferno, ne scrisse anche l’Alighieri, in cui venivano puniti i colpevoli delle più orribili nefandezze. Il luogo era circondato dal Flegetonte, un sinuoso fiume di sangue, che aveva come guardiana Tisifone, sorella di quella Megera della quale tutti, chissà poi perché solo di lei, ricordavano il nome, associandolo spesso alla suocera. Nella sua parlata corrotta dalla frequentazione del latino, il pievano concludeva che era la parte più interna e sotterranea sia dell’inferno che delle acque, lasciando le frastornate menti con la ferma convinzione che se le acque col tartaro erano imparentate con l’inferno, quelle della Fonte Leggiera, che ne erano prive, dovessero essere quasi sante.
Ragion di più per considerare la piaga dei topi e l’impossibilità di bere l’acqua leggera un divino avvertimento.
I gatti sembravano impotenti di fronte a questa invasione e anche gli uomini a poco a poco si arresero. Nel giro di pochi giorni l’ondata dei topi si riversò nelle campagne e prese d’assalto i grani, le biade e l’orzo ancora sulle spighe. L’intera comunità si riunì e, preso atto che sugli steli non restava nemmeno la sementa necessaria, con l’appoggio deciso degli ufficiali della Compagnia del SS.mo Sacramento decise, il terzo giorno della Pentecoste, di portare in processione pro necessitate il Santissimo Crocifisso della chiesa di S.Andrea, chiedendo intercessione e grazia al mai dimenticato San Valfredo fondatore della Abbazia di San Pietro in Palazzuolo. Narrano le cronache che mai si vide maggior partecipazione e devozione di popolo, oltre trecento erano le persone. La processione uscì pregando dalla chiesa si fermò in raccoglimento alla chiesa di San Pietro, quella detta del convento, uscì dal castello e si recò alla Badia.
Alla fine della giornata non sappiamo con quale stato d’animo si coricassero i monteverdini: speranzosi, forse disperati, certi tuttavia di aver lasciato in mani pietose il loro futuro.
La mattina si annunciò con uno strano silenzio che riempiva le orecchie dei lesti a levarsi, nessun rumore, nessun movimento furtivo, qualche rapida ispezione ai primi campi fuori della porta e fu tutto un grido di gioia che svegliò l’intero castello, seguito dai rapidi tocchi della campana. Il popolo era tutto nelle strade e nei campi a constatare che non c’era traccia di topi vivi, solo alcuni morti, gli altri spariti come per magia. San Valfredo aveva fatto il miracolo.
La notizia raggiunse subito le sette famiglie che abitavano fuori dal castello e nel giro di poco arrivò ai paesi vicini, Canneto, Sassetta, Suvereto, Castagneto e oltre, muovendo i pellegrini a recarsi alla diruta Badia per chiedere nuove grazie al Santo, e alcuni la ottennero.
Il 27 maggio il popolo tornò nuovamente in processione alla Badia questa volta in ringraziamento del miracolo.
Lo storico episodio fu testimoniato e sottoscritto da molte persone che nel 1781 giurarono pro veritate alla presenza di testimoni e di fronte ai delegati del Vescovo di Massa e Populonia, inviati a Monteverdi per raccogliere notizie ed elementi sui miracoli attribuiti a San Valfredo.
La leggenda invece continua e dice che, dopo l’intervento miracoloso del Santo di Monteverdi, il topo nero fu ritrovato a S. Martino, forse lasciato sulla sommità del poggio in bella vista a ricordare ai paesani lo scampato pericolo. Così il poggio di San Martino da allora venne anche detto Poggio al Topo.
Del vero esiste anche nella leggenda: il poggio di S. Martino è detto Poggio al Topo solo successivamente al 1781 e così lo troviamo nominato negli inventari dei terreni della chiesa di S. Andrea del 1789, del 1807 e del 1816, non prima.
Alessandro Colletti, 1997-1998